
Un Libro Fatalmente Chiuso
LUIGI FABIO MASTROPIETRO
Un libro fatalmente chiuso (Uno studio su A libro chiuso di Leonardo Bonetti, Sigismundus Editrice, 2012)
Ho iniziato a leggere A libro chiuso adottando il metodo divinatorio della bibliomanzia, lo stesso che utlizzo quando devo interrogare l’oracolo dell’ I Ching. Non è un esercizio di eccentricità, perché A libro chiuso è un metalibro, un libro dei libri, così come un testo sacro, come Il libro dei morti o come il Necronomicon di Abdul Alhazred – il quale poi, essendo anche uno pseudolibro inventato dal genio di Providence, sarebbe da catalogare nella fascinosa categoria olimpica degli pseudometalibri.
Ma al di là dell’efficacia responsoriale della bibliomanzia – efficacia direttamente proporzionale alla valenza del “doppio medium”, il consultante e il metalibro – e con la doverosa precisazione che naturalmente sacro non equivale a confessionale, consiglio ai lettori di coltivare con A libro chiuso lo stesso approccio conoscitivo e comunicativo che si realizza nel contatto con un corpo organico, sacro e inviolato, quale può essere ad esempio quello di un albero antico che ha attraversato i secoli e sopravvissuto alla tregenda. Suggerisco, in altre parole, di instaurare una relazione speciale tra noi lettori e A libro chiuso che l’autore definirebbe “creaturale” e che vive di un incontro emozionale fra due mondi inconosciuti oltre che di un confronto energetico fra due entità lucifere. La sede non mi consente di entrare nel dettaglio ma posso dire che questa relazione intima tra due entità portatrici di luce – il libro e il lettore – e questa communio circolare tra la luce dell’immagine (il significato) e la materia “organica” della parola scritta (il significante) è uno dei fondamenti culturali della teoria della coscienza collettiva elaborata dai teorici di Princeton e dell’assunto fisico–biologico alla base di questa teoria: la risonanza morfica. La risonanza morfica è un processo immanente nel cosmo – messo in luce da Rupert Sheldrake – grazie al quale ogni individuo appartenente a una determinata specie, attinge alla memoria collettiva della stessa specie, una memoria atopica e acronica (come Jung rivelò nei suoi studi sull’inconscio collettivo). Il fatto interessante di questa teoria – verificata in qualche modo in seguito alle indagini della fisica dei quanti e all’affermazione del principio del sincronismo – è che i canali privilegiati dei percettori di specie deputati ad attingere alla memoria speciale – soprattutto nell’impulso creativo e nelle situazioni limite – sono i segni di specie. Certamente, per la specie umana, il libro è un segno complesso di specie attivatore del canale della percezione (e della creazione) collettiva e in particolare lo è da sempre il metalibro. Basti pensare al gigantesco portato simbolico e sociale che il Libro delle genti ha avuto e continua ad avere nella storia della specie umana, il più delle volte con effetti devastanti per il genere umano, purtroppo, grazie alla radicalizzazione della paura dell’altro brandita come un’arma di distruzione di massa dai concorrenti, sanguinari sistemi clericali a storicizzazione monoteistica. Intanto, A libro chiuso è un metalibro proprio nel senso storico dell’espressione poiché indaga il mistero della parola scritta che fonda l’espressione letteraria nelle sue differenti declinazioni e appare come uno dei possibili breviari di liturgia del mistero dell’incarnazione della parola nella scrittura. Certamente è anche, in qualche modo, l’epigono non convenzionale di una lunga tradizione metaletteraria che ha attraversato e continua ad attraversare in filigrana tutta la storia della letteratura, dal codice di Hammurabi e da Omero all’età moderna, anche se il concetto di “metaletterario” è piuttosto recente – una derivazione di della nozione critica di “metalinguistico”, introdotta a metà degli anni ’30 del secolo scorso dai teorici della Scuola logica polacca (Alfred Tarski) e del Circolo di Vienna (Rudolf Carnap). Ma quel che conta è che questo “esercizio di liturgia” (non solo e non sempre di genere aforismatico) ha visto fiorire nella modernità capolavori assoluti della dissacrazione, del livore lirico e della esegesi filosofica in letteratura grazie ad autori come Kraus, Ceronetti, il grandissimo Cioran, senza citare l'abusato Wilde o il più folklorico Ambrose Bierce del Dizionario del diavolo. Una nota di merito, allora, va ascritta agli editori Sigismundus, i quali hanno creduto nel progetto di questo libro che naviga contro corrente nel quotidiano profluvio di nefandezze editoriali. Tuttavia A libro chiuso mi sembra più vicino alla tensione conoscitiva di un Paul Valéry, così come la espresse, più che nei famosi Cahiers, in un saggio enigmatico e polittico, alquanto misconosciuto, dal titolo Variété. La lettura trasversale di A libro chiuso, infatti, mi fa echeggiare l’impressione ricevuta leggendo Variété: la travagliata scoperta da parte dell’autore della “inautenticità” di entrambe le esperienze di scrittura, sia della poesia che della prosa. E del resto si tratta di una inautenticità già configurata nella scrittura dei romanzi di Leonardo Bonetti e che si traduce in una ibridazione formale che viene in qualche modo sistematizzata in A libro chiuso, rivelando il carattere di estraneità e apparente devianza dall'universo simbolico (nonché dall’orizzonte letterario) delle precedenti prove narrative, Racconto d’inverno e Racconto di primavera. E altra rivelazione non poteva aversi dal momento in cui A libro chiuso è anche e prima di tutto l'essudato della naturale inquietudine dell’autore, da sempre alla ricerca del sestante della propria espressione (e della propria vita) sospesa tra la composizione musicale e la scrittura poetica. L’esito naturale di questa inesausta ricerca è una scrittura ibrida e scoscesa, un segno rupestre – da forra verrebbe da dire echeggiando un elementale dell’universo mitologico dell’autore – una scrittura che si fa canto panico nonostante se stessa e il disagio filosofico, teleologico che esprime. È pur vero che A libro chiuso è ontologicamente altro rispetto ai romanzi. È un’opera acclive e implacabile, intransigente e aspra, come già l’eponimo annuncia e come può essere solo la parola che prova a raccontare se stessa senza infingimenti. È la sfida esplorativa dello speleologo che vaga nella tormenta alla ricerca della sorgente del fiume carsico che alimenta il verbo, ma è anche l’afasia lirica di chi nulla può contro la voce che gli parla dentro da sempre e lo spinge ad una veglia perenne che fa filtrare bagliori di eternità tra le pagine del libro ancora chiuso. La domanda cruciale che si pone A libro chiuso è che cosa accade quando la parola da pronunciare appare impronunciabile e già per questo si trasfigura in qualcosa d’altro, in una vibrazione barbara che ha perduto l’abito della tonalità affettiva, in un cristallo scorticato della pelle della voce che l’ha generato, in una scheggia che si lascia cadere nuda sul foglio bianco nereggiando appena come ossa nel deserto. Infatti, A libro chiuso non indaga solo la parola scritta ma anche lo spazio meridiano che corre tra la parola pronunciata e la parola scritta, uno spazio ineffabile e indecifrabile, parimenti indagato, con un virtuoso balzo sinestetico, dall’arte visiva di Ettore Frani a corredo dell’edizione. Ho avuto in passato la fortuna di collaborare con Ettore in alcuni percorsi nei quali la potenza letteraria della sua iconografia si trasfigurava in sublime didascalia della mia scrittura e per questo oso un’autocitazione tratta dal libro d’arte Vana immagine, anche per spiegare il perché definisco Ettore Frani il profeta dell’estasi della luce.“Ettore Frani vede l’invisibile nel visibile, come succede ad un veggente. Ne distilla le forme, come succede ad un artista veggente. Ma poi le ricopre con il velo del mistero, come solo uno ierofante può e deve fare. Mai occhio profano sollevi quel velo senxa perdere la vista. Non si denuda in scena il sacro senxa rischiare la propria vita e quella degli altri. Occorre dosare l’illuminaxione dei neofiti attraverso stadi graduali. Filtrare il Pleroma, il mondo delle idee nel mondo fenomenico attraverso il velo della luce nera. Solo il sacerdote di Eleusi abita la camera segreta del tempio. Affronta nell’anaktoron la voce del dio e ne registra le sembianxe. I mystai attendono fuori la deiknymena, l’esibixione dei sacri manufatti. La visione degli involucri del mistero li conduce da uno stato di angoscia ad uno di estasi. Coloro che vedono sono salvi.” Nel sacro manufatto di A libro chiuso, la parabola storica di questa sorta di poesia nera allo specchio, questo liturgico officio del macellatore di credenze, questo scandaloso denudarsi del verbo di fronte al logos, parafrasando Emil Cioran, si presenta come una fatalità e quando leggiamo quest’opera ci dà l’impressione che non avrebbe potuto non essere scritta.
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