
La parola che manca. Testi inediti di Stefania Riva
Scritto da Davide Nota / Stefania Riva Mercoledì 24 Agosto 2011 09:07
DAVIDE NOTA / STEFANIA RIVA
La parola che manca. Testi inediti di Stefania Riva
Ho conosciuto Stefania Riva a Pesaro, durante la presentazione alla Libreria Catalogo dei primi libri Sigismundus, in primavera, con Gianni D'Elia e gli amici della Gru. Prima di salutarci mi ha consegnato un gruppetto di poesie, non rilegate, che ho messo nella tasca del giubbotto e letto per frammenti, durante la serata conviviale e nella notte, ospite del poeta ed amico Stefano Sanchini.
Mi è stato subito chiaro che questa prima Silloge inedita di Stefania Riva dovesse trovare immediata accoglienza tra le pagine (e tra i pixel) della Scuoletta marchigiana.
Tra i cento tomi inediti ed editi che si ricevono ogni mese, forzati o forzuti, mediocri e noiosi, spiacevolmente egocentrici e quasi mai necessari, ricevere finalmente una sana doccia di umile talento naturale, limpido e cristallino, è un vero sollievo.
Qualcuno potrà dire di questi versi: "letterari". Dunque: io credo che quando una "seconda lingua", quale è sempre la poesia secondo Fortini, utilizza il letterario come strumento di intensificazione espressiva (specie se attraversato da variazioni stilistiche che ne aumentano lo spessore pluridimensionale, nell'ambiguità identificativa), la distanza fra "letterario" e "vitale" cessa di esistere; si dà cioè il luogo del "Letterario vitale", capace di agire direttamente sulla nostra pelle, sulle nostre molecole, sui nostri elettroni.
Stefania Riva, che scrive da sempre e fino ad oggi non ha mai reso pubblico neppure un verso, ha questo fresco talento del vivo letterario agente.
Una vera sorpresa, scoprirla.
Buona lettura.
DN
***
LA PAROLA CHE MANCA (Silloge)
Ed era un barlume di narrativa spento, brunita carta ai bordi
velati di fuoco, dove le parole dette all’aria ancora ardono al vento.
Ai piedi di una terra assolata le nuvole, tra i lunghi colli stretti degli alberi
al di là del lago immobile furono trascinate, assetate e smorte
mentre tra gli ulivi una corsa proibita d’aliti prevalse, a spegnersi col fiato
il caldo che infiamma la pelle.
Erano germogli o pietre di fiume le parole, asciugarono al sole in un tempo
mutevole, sopra un fazzoletto bianco.
Tra le crepe fiorirono ombre e il silenzio odorava del pane ch’era sulla tavola.
Nascondi ti prego il mio pane addentato, la mia fame divorante…
Non dire niente, non girarti nel vicolo pensante, allontana queste manie riflesse
inferte ad una stagione incompleta, poiché del passato in briciole infondo non saprai
darmi né raccogliere quel che è stato.
Lasciami ciondolare in questa città che non ricordo, in un tempo che vivo
nei polmoni rasi quasi fosse respiro la ruggine, come quando eri con me e non sei.
La notte illimitata è un deserto di sabbia opaco, impronta calpestabile
affondata nel ventre friabile dell’assoluto, disgregato in un solo istante.
Una visione sovrannaturale allo sguardo ripiana, è l’immagine del tuo fantasma
assorbito con un balzo di luce nel profondo degli specchi, mentre i gradini dei sogni
nudi sale senza fretta.
Non trasudano ferite ai nostri occhi i sembianti o l’amato bene, sorti come
sole totale tra nebbie erranti.
Non ancora geme al costato l’aria tra le persiane serrate.
La tua mano ferma in controluce è ferma su di un ginocchio - vedo -
la stessa mano riconosco e pur mi pare altra, un pezzo di ricambio nuovo
sigillato in una busta.
Ho atteso migliaia d’anni ferma davanti alla porta di casa.
L’ombra del chiavistello si è fusa con la croce del mio corpo stagionato.
Fuori la luce brucia, sparge sale sull’asfalto, a manciate, come per nutrire frenetici
colombi, cercando di aprire un vialetto tra fredde ali di ghiaccio.
Ho veduto quell’altro volto simile a questo che tace, non ha spostato di molto
il suo asse, l’alone chiaro e desertico, il bianco folle denutrito di un muto piatto:
scheggiato, digiunato, frantumato e pestato dall’andirivieni della folla.
Andiamo allora (andiamo) a circondare con le braccia gli ultimi decenni di vita
quelli che ancora ci precedono. Stringiamo nel palmo della mano chiusa
l’unica chiave ritrovata nel bosco delle piogge frementi e solo allora
soltanto in quel momento, fra l’indifferenza annoiata dei passanti
sappi pronunciare la parola che manca.
***
E QUESTO VENTO
E questo vento che così trasmigra
e addossa lamenti, fiuta le strade
c’impedì un ultimo abbraccio.
Venne strappato da noi
l’ultimo bacio, l’arsura del petto.
Dalla ferita aperta degli occhi
entrò ad abitarci la notte.
Da allora non conosco patire
quell’unico tormento
non possa eguagliare:
- interminabile, sovrano -
giacché gli uni si infrangono
nello specchio ferito dell’altro.
Oh! Perdona, cuore malato
tutto ciò che hai perduto.
Resuscita la tua fame segreta
e dal crepuscolo insonne
dell’orizzonte dipana l’empia
sostanza innamorata.
***
STAI, MIA ANIMA
Stai, mia anima inquieta
sull’orlo d’una fatiscente
apparenza, sospesa
profondità latente
del sonoro mare
laddove nascono fortissime
correnti di memorie
e inadatto al volo pare
il cuore mortale.
Stai tra i secoli
come un leone in pietra
ai lati del cancello
sorseggiando dell’oscurità
il riposo arcano.
Stai tra la terra e il cielo
a misurar l’ampiezza
dell’infinito un respiro.
***
AMAI NUDA
Amai nuda come si sta nudi in un bosco
simili a radici
bagnati in ogni zolla e i capelli
fradici di verde linfa ossigenata
aggrappati come edera in un tronco
sulla bianca schiena.
Amai in anni esplosi in stami
al cambio di stagioni
nell’abbraccio ritorto dei rami
tremando di tanta intima segretezza
e dal ghiaccio sciogliersi in altra sostanza
gettar foglie carnali
un letto frusciante di mani
in cui ricomporre l’estate.
Amai con occhi di palude le palpebre
chiuse sui rapidi assensi dei baci
simili a frutti feriti
aspri di venature e succhi infiniti
socchiusi per guardare in alto
rovesciando nel cielo la testa.
***
LA GRAZIA D’ANTINOO
Una lunga giacca una sciarpa un cappello
spiovente passo distaccato
dalle cose terrene
le mani infilate in tasca:
questa l’immagine di un moderno e trasognato
Antinoo veduto aggirarsi sotto i portici
di villa Casali a Roma.
Pioggia battente e le foglie dei platani
cantano con il rumore
antico del giallo che invecchia
con la sapienza del manto eterno dove
le statue degli efebi sostano annoiati da millenni
e il passo fuggitivo degli improvvidi ladri.
Lo si vede trattenersi nelle vie del centro
attraverso piazze e monumenti
accendersi una sigaretta controvento
gettare laconico il cerino
e quando le ombre del fiume nel flusso delle voci
annegano allora il suo volto etereo e sospeso
- corteggiato in ogni lineamento -
e le membra diafane e non corrose
irradiano splendente forza intorno.
Quando si toglie il cappello
- solitario pur nella beltà dei vent’anni -
e china la testa in quel modo
assorto in un sentimento di pena lontano
venti gelidi gli accarezzano febbricitanti la nuca
le sue labbra pronunciano la sola parola
***
CUM come un mantra indolore e intimo.
Un teatro karagioz si anima verso sera
l’ombra di Adriano - l’imperatore - giunge
al suo fianco sovrastando con l'ombra aitante
di un corpo adulto
il corpo di un giovane ancora in piena luce
rimirandolo da ogni lato
come attorno ad una statua un vestito
sguardi ammirati gettati sopra impalpabili nudità.
All’orecchio gli sussurra versi adoranti
incline d’improvviso al riso e al pianto
una segretissima vibrazione Divina
conosciuta per caso solo dagli amanti
quasi contendessero alla morte o all’amore
ultime misteriose profezie.
***
SIGNATURA RERUM
In calce ad un frutto la firma
o la secca potatura di tralcio
l’incisione sfrondata della scorza
- il mio silenzio pari al tuo -
nel luogo proibito della bocca
taglio obliquo di capelli
fino a perdere innumerevole forza.
Salubre digiuno la parola
- la città macera -
sotto il plumbeo alveo avulso
dove il clima nudo delle tue mani impazza
sulla fronte segnata e distolta.
Il garzone - vedi - non avrà sempre vent’anni
avvizzirà come il cavolo nella foglia
la scala soleggiata fino la soglia
sortirà un solfeggio morto sulla porta
un vecchio cartello: “in vendita”
smentirà laconico la vicenda.
Colpa del Divino - dicono i giornali -
se l’arte con il quotidiano non collima
e l’umano è incapace di curarsi i mali
eppur in un foglio conservi hipsizygus
quasi a rinverdire con l’alto la stima
di un’estinzione acerba.
***
PURPLE RUHEMANN’S
Eppure si precipitò fuori dallo stabile
ritraendosi come lingua senza aria respirabile.
Una volta sceso in strada distese
le membra, acquistò un giornale
osservando le prime luci accese.
Dall’angolo della spalla, dietro la dritta schiena
notò l’assenza della sua ombra.
Dov’era?.
Un terribile sospetto parve agitare i volti degli astanti
- lentamente se ne accorse -
attraversato com’era da occhiate insistenti
franose pile di commenti.
Appoggiò la mano sul muro tremante
un’impronta sola seguita da altre
una scritta in aramaico, una resina appiccicosa
parve animarsi - mai più cancellabile -
come immagine ad una distanza stereoscopica
mossa dal fondo tridimensionale
luminosa conduzione in fibra ottica.
Arretrò tornando sui suoi passi.
Salì la ferrosa scala esterna dello stabile
come lo scheletro un’armatura.
Rientrò nel luogo del delitto.
Lì ritrovò la sua ombra accanto le esanimi vittime.
Disgraziatamente fuori pioveva fitto
un fascio laser di luce tratteggiava come lime
il perimetro fluorescente dei corpi sulle assi.
L’ombra accennò un saluto con il mento
- per assurdo tanto era lo sfinimento -
sollevato a dispregio di un uomo vile.
***
PUNTA DIAMANTE
Estremo sospendersi
in microsolchi eliocentrici
lame di pattini sopra piani avversi
- il suono e le voci -
o la punta diamante su traccia
graffiata della lingua.
Oscillanti orari fuori binari
trasalite sincopi in tempi ordinari
destituiti anatemi verticali
ritmici pendoli
- i nostri tempi azzerati sui polsi -
verso l’alba entro lo scabro cortile
su larghi dischi in nero vinile
tiri sniffati di tecno-sound.
Mi strappano un’anonimia i versi
un intero trapasso d’iperboli
se Thomas Stearn Eliot o Ezra Pound
nel fumo gassoso d’infimi bar
luridi templi d’empi mercati
o imagismi altolocati
separando dall’insieme conciso delle cose
impetuose e roche corde radicali.
***
VIA STRETTA
Vi è una via stretta
- si chiama così -
dicesti
se spiove sarò lì!.
Le case sono cartone ondulato
piegate le une sulle altre
affrante nell'umido commiato.
L'inizio e il fondo
nel nulla combaciano
e all'orecchio ruvido d'una finestra
un bisbiglio innanzi le attraversa
come avanti il sole
l'ombra dietro avanza
e allo scoperto
ammutolita s'arresta.
Scende pure una corda:
qualcuno tenta la fuga
se in cima o in alto
epica romanza
mai epilogo produrrà il salto.
A forza d'attendere
nel ventre largo delle sette
questa molle rincorsa delle lancette
mi si è formata una profonda ruga
mentre evapora con la sera riarsa
- inutile farsa -
uno stanco sole accovacciato
greve otre dal secco fiato.
***
ERA PREVISTA PIOGGIA
Scende tra il sonno e la grazia
riga vetri e pareti
nella stanza allagata trasporta
una sedia in un valzer
un tavolino con sopra una tazza
- resta in bilico perenne -
e la donna ondeggia sola
al centro della stanza
i capelli le arrivano alle caviglie
libri affondano lasciati dalle sue mani
stanche e lisce.
Porte e finestre sono aperte
lampioni curvano come cigni
lunghi colli sulla strada
i semafori hanno le luci accese
fiammanti di un porto sonoro.
Si lasciano trasportare dalla corrente:
Il chiosco dei giornali
con la sua cupola verde
un’intera isola asciutta
trafitta da una panchina
una bottiglia vuota.
I mezzi busti delle statue
attorno i platani e le fontane
amoreggiano in tondo.
Una delle statue guarda dentro
vede la donna addormentata
con una mano di marmo le districa
i capelli intrecciati separandoli
dalle alghe e dalle ostriche
con un colpo secco apre le valve
assapora il frutto salmastro
e sulla conchiglia complessa
assai lunare
scrive il suo nome di esule.
Stefania Riva nasce a Pesaro. Attualmente insegna in una scuola dell’infanzia e si occupa di fotografia, pittura e teatro-danza, allestendo corsi di formazione personale e ricerca (Progetto tre & sessanta - TRP base, tecnologia del rendimento psicofisico; Rio Abierto, tecnica di integrazione trans personale e bio-dinamica del movimento) e laboratori teatrali sul racconto animato e la fiaba. Questa è la sua prima silloge poetica.
Succ. > |
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