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La sinistra deve costruire una nuova egemonia culturale

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La sinistra deve costruire una nuova egemonia culturale



“La vittoria di Torino è clamorosa. Politicamente parlando, uno 'stupro'. La caduta della città dell'intellighentsia azionista e comunista segna definitivamente il cambio dell'egemonia culturale nel Paese”

Fabrizio Cicchitto


Negli ultimi anni in Italia la questione dell'egemonia culturale, secondo il concetto elaborato da Antonio Gramsci, e' stata posta in maniera insistente e pressoche' esclusiva dalla destra, principalmente per valutare la portata della propria avanzata politica e sociale nel Paese. Mentre a sinistra [1] si disegnavano strategie di breve periodo per arginare la straripante affermazione del berlusconismo, la destra si interrogava a piu' riprese sulla propria penetrazione nella realta' sociale e culturale italiana, le cui basi erano gia' state gettate da tempo. [2]



16 anni di berlusconismo: storia di una normalizzazione fallita

Dal 1994 ad oggi, nonostante alcuni periodi trascorsi all'opposizione, la destra ha dominato l'Italia sotto tutti i punti di vista: politico, economico, sociale e culturale. Dal momento della celebre discesa in campo di Silvio Berlusconi nel gennaio del 1994, il paesaggio politico ha assunto una fisionomia approssimativamente stabile, in cui la coalizione di centro-destra ha mantenuto la maggioranza relativa dei voti, con le eccezioni del 1996 e del 2006. Questi 16 anni di politica sono stati segnati dall'avvento devastante del sistema elettorale maggioritario, innestato pero' sul corpo politico di una democrazia consensuale (e percio' proporzionale); il passaggio radicale dalla legge proporzionale al voto maggioritario uninominale ha portato con se' un'interpretazione completamente nuova delle relazioni maggioranza-opposizione. Tuttavia, il passaggio dalla mediazione proporzionale al decisionismo maggioritario non e' stato accompagnato da una trasformazione delle istituzioni del Paese volta a rafforzare i diritti dell'opposizione o il pluralismo, bensi' e' avvenuto mediante un innesto diretto sullo scheletro istituzionale della Prima Repubblica [3]. Di conseguenza, negli anni '90 il sistema politico italiano ha subito un'accelerazione improvvisa verso una sorta di plebiscitarismo maggioritario dove il vincitore si aggiudicava tutto e l'opposizione nulla. A tutto questo, inoltre, si aggiungeva la presenza storica in Italia di una serie di “linee di frattura” socio-politiche, tradizionalmente “interpretate” dai partiti della Prima Repubblica, che improvvisamente si sono trovate orfane di rappresentanza e costrette all'interno di una logica binaria innaturale.
In questo contesto di plebiscitarismo “ultramaggioritario”, Silvio Berlusconi si e' affermato da subito come il piu' efficace interprete di questa logica bipolare, della contrapposizione feroce e della riaggregazione degli interessi sociali ed economici tradizionali. Berlusconi, anche grazie ad uno studio a tavolino del “mercato” della domanda e dell'offerta politica italiana, e' stato capace di dare asilo politico ad una serie di categorie sociali rimaste orfane a causa della caduta dei partiti tradizionali; il blocco sociale creato dal centro-destra, costituito da un mix di piccola e media imprenditoria settentrionale, liberi professionisti e fasce sempre piu' ampie dei lavoratori a medio e basso reddito, e' diventato rapidamente maggioranza nel Paese, senza che la coalizione di centro-sinistra riuscisse mai davvero a scalfire la compattezza di questo gruppo. L'identificazione (politica, sociale ed emotiva) di questo blocco sociale col suo rappresentante principale e la saldatura con una nuova elite politica (in buona parte reduce dalla Prima Repubblica) ha creato cosi' il fenomeno del berlusconismo.
Davanti alla creazione di un blocco socio-politico di maggioranza relativa nel Paese, come emerso in maniera lampante con l'inattesa vittoria elettorale del 1994, la sinistra ha reagito elaborando una strategia di breve periodo mirata fondamentalmente a due obiettivi: 1) il contenimento del berlusconismo mediante la costituzione di un “cordone sanitario”; 2) la normalizzazione del berlusconismo, secondo un metodo “giolittiano” che avrebbe dovuto portare alla riduzione di questo fenomeno politico ad un'accettazione tradizionale della costituzione formale e materiale e della dialettica partitica. Questa strategia, che ha avuto in Massimo D'Alema il suo principale artefice, e' assimilabile in parte all'orientamento adottato dal PCI dal dopoguerra fino al suo scioglimento: evitare di dividere il Paese, mirare alla normalizzazione dei propri rapporti con l'avversario politico e giungere al governo dell'Italia attraverso una graduale egemonia culturale. Come vedremo meglio successivamente, la strategia del PCI si distingue da quella del centro-sinistra dalemiano in un punto principale: la mancanza di una prospettiva di medio-lungo termine, ovvero il concetto di egemonia culturale. In ogni modo, questo disegno ha portato cosi' al ribaltamento del dato elettorale emerso nel 1994 e alla nascita di una coalizione di centro-sinistra che, di fatto, comprendeva tutte le forze partitiche diverse dal berlusconismo. In questo modo, nel 1996 il centro-sinistra ha vinto le elezioni, grazie ad un'eterogenea maggioranza che andava da Rifondazione Comunista a Lamberto Dini; e sempre in questo modo, il primo obiettivo della strategia fu conseguito, nella convinzione che un periodo all'opposizione avrebbe fiaccato irrimediabilmente Berlusconi e il suo blocco sociale, mentre la pratica di governo avrebbe inevitabilmente rafforzato i consensi del centro-sinistra.
In questo contesto nasce il tentativo della Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali, gestita da D'Alema proprio per completare la sua strategia con la normalizzazione del berlusconismo, nell'aspettativa che uno scambio fra le riforme per la governabilita' del Paese e l'addomesticamento del potere giudiziario avrebbe portato alla gestibilita' di Berlusconi all'interno degli schemi partitici tradizionali. Tuttavia, il fallimento di questa reciproca legittimazione destra-sinistra tradiva da parte della sinistra un'ansia di sdoganamento che non trovava equivalenti a destra: mentre il berlusconismo era gia' maggioranza nel Paese (e per questo non necessitava di essere “riconosciuto” dalla sinistra), era il centro-sinistra a necessitare di una “benedizione” politica, in quanto minoranza culturale e politica. Di conseguenza, la decisione di lasciare intatto il potere mediatico di Berlusconi e di evitare di adottare una legge sul conflitto d'interessi si e' rivelata un calcolo sbagliato; la cannibalizzazione della sinistra ad opera dell'apparato di potere della destra e' stata una conseguenza probabilmente non prevedibile all'epoca, ma soprattutto priva di alternativa. L'altra opzione – quella dell'esclusione di una coalizione di centro-destra, gia' maggioranza nel Paese, dalla competizione politica – avrebbe portato ad una spaccatura a meta' dell'Italia e a forti tensioni sociali e politiche: e' il “modello Thaksin”, dal nome dell'ex primo ministro thailandese [4]. Stretto fra l'incudine del “golpe costituzionale” e il martello dell'anomalia berlusconiana, il centro-sinistra ha optato per una strategia fallimentare che nel 2001 ha inaugurato il decennio di potere quasi ininterrotto da parte di Silvio Berlusconi.
Quello che e' seguito dal 2001 ad oggi e' stato soltanto una riproposizione poco originale degli schemi partoriti negli anni '90. Ed e' cosi' che la vittoria del centro-sinistra nel 2006 (di nuovo il frutto di un cordone sanitario attorno a Berlusconi volto a coalizzare l'eterogenea maggioranza assoluta del Paese contro il blocco sociale di maggioranza relativa di centro-destra) e' stata seguita nel 2007 da un tentativo maldestro di normalizzare il berlusconismo mediante il dialogo sulle riforme, questa volta condotto da Walter Veltroni, colpevole di non aver tratto dal passato le lezioni dovute. Ancora una volta, alla maggioranza conservatrice (la right nation italiana?) le forze progressiste hanno saputo opporre solo progetti resistenziali, da CLN, senza alcun valore elettorale.


L'egemonia berlusconiana

Come gia' accennato a piu' riprese, e' limitativo interpretare gli ultimi 15 anni in un'ottica esclusivamente di controllo dei media, di manipolazione dell'opinione pubblica o di “accidente della storia” [5]. La penetrazione nella societa' italiana del centro-destra e' qualcosa di ben piu' duraturo, significativo (e antropologico, come e' stato detto a piu' riprese) di una serie di vittorie elettorali; e' la narrazione di una mutazione radicale della visione della realta' e dell'universo valoriale degli italiani. Per comprendere il berlusconismo, e' indispensabile ritornare all'utilizzo di alcune categorie del pensiero gramsciano colpevolmente cadute in disuso a sinistra durante la “grande abbuffata” neo-liberale che ha attraversato le forze progressiste dal 1989 ad oggi (aggravata da una reazione conservatrice ed identitaria di buona parte della sinistra radicale).
Ad oggi, sono stati compiuti alcuni studi parziali sulle origini del consenso del centro-destra [6]; benche' questa sia un'opera che richiedera' uno sforzo organico in futuro, in questa sede mi limitero' a delineare le caratteristiche generali di questa egemonia culturale. Le origini storiche di questa inversione di tendenza non sono chiare; diversi autori fanno risalire l'inizio del cambiamento all'avvento della televisione commerciale e dei suoi nuovi modelli valoriali e comportamentali [7]. Benche' sia innegabile che la rottura del monopolio RAI e la nascita del duopolio televisivo abbia avuto un ruolo fondamentale nel mutamento del Paese [8], le origini di questa rivoluzione conservatrice vanno ricercate altrove. Come abbiamo gia' argomentato a piu' riprese su “La Gru”, e' importante ancora una volta risalire al Trentennio italiano per capire a fondo come si sia giunti al berlusconismo.
Nel periodo chiave della fine degli anni Settanta (che segna tradizionalmente la fine dei movimenti e della lenta ascesa della sinistra e il riflusso nel privato), un dato essenziale e' quello del “golpe post-moderno” [9] teorizzato dalla loggia massonica P2. Al di la' della sua natura di “oltranzismo atlantico”, un aspetto raramente messo in risalto nella storia della P2 e' la sua strategia neo-gramsciana, di conquista graduale del potere e pertanto non direttamente identificabile come golpista. Come gia' affermato da Panarari per il berlusconismo, la P2 rappresenta probabilmente il primo tentativo di tradurre nel contesto italiano i principi di quella “rivoluzione conservatrice” che negli USA elementi transfughi della sinistra americana utilizzeranno per discreditare la presidenza Carter ed aprire la strada al trionfo del reaganismo [10]. Nel “Piano di Rinascita Democratica”, infatti, il primo articolo afferma perentoriamente che “sono esclusi dal presente piano ogni movente od intenzione anche occulta di rovesciamento del sistema”; proprio attraverso l'eufemismo della “rivitalizzazione” del sistema, la P2 di Licio Gelli si pone l'obiettivo di conquistare la societa' civile, prima ancora dello Stato [11]. Questo scopo verra' realizzato attraverso il controllo degli “intellettuali organici”, identificati in professionisti e imprenditori e negli operatori della stampa, scuola, televisione, partiti e sindacati [12]; in un secondo momento, la gestione di uomini-chiave all'interno di questi organi permettera' il cambiamento di regime. Il Piano di Rinascita Democratica rappresenta cosi' una strategia lucida per attuare un colpo di stato morbido, mediante il “consenso spontaneo” degli stessi italiani. Infatti, una volta selezionati gli uomini essenziali alla creazione di un'egemonia nel Paese, “in un secondo tempo occorrerà: a) acquisire alcuni settimanali di battaglia; b) coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata; c) coordinare molte TV via cavo con l'agenzia per la stampa locale; d) dissolvere la RAI-TV in nome della libertà di antenna ex art.21 Costit.”.
Ovviamente, tracciare la storia e le origini dell'egemonia culturale conservatrice in Italia non vuol dire assegnare automaticamente volonta' precise e filiazioni dirette; tuttavia, sarebbe ingenuo e superficiale ignorare il collegamento (almeno ideale) fra la P2 e l'affermazione di una nuova forma di egemonia culturale, quella della televisione commerciale di massa negli anni Ottanta. Se la P2 rappresenta davvero il luogo dove si coagula cio' che resta dell'oltranzismo atlantico (per definizione piu' vicina e sensibile alle correnti e ai mutamenti in corso negli Stati Uniti), non appare cosi' improbabile affermare che essa abbia anche rappresentato un momento di transizione fra la strategia della tensione e la rivoluzione conservatrice del riflusso nel privato e dell'individualismo edonista che seguira'. La P2 resta cosi' a meta' del guado: un'evoluzione incompiuta dalle trame atlantiche a qualcosa di nuovo, piu' difficilmente afferrabile e meno chiaro; e allo stesso tempo una serie di elementi di novita', come la rinuncia alla violenza e la ricerca di un'egemonia civile prima ancora che nello Stato. Riadattando ancora una volta le categoria concettuali di Gramsci, la P2 e' cosi' il momento di passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione” nella societa' italiana [13].
In questo senso, il trionfo della televisione privata negli anni Ottanta e' probabilmente il completamento di questa transizione, almeno dal punto di vista ideale. Come illustrato da Perry Anderson, “l'ondata di una nuova cultura di massa secolarizzata e pienamente americanizzata fu una questione diversa. Colti di sorpresa, l'apparato e l'intellighentsia del partito [comunista]... furono travolti. Sebbene un dialogo critico con la cultura pop non fosse mancato... il PCI non riusci' a relazionarsi con esso... il risultato fu una voragine tale fra la sensibilita' dell'elite istruita e quella delle masse che il Paese rimase piu' o meno senza difese davanti alla contro-rivoluzione culturale dell'impero televisivo di Berlusconi”. Cosi', il controllo degli intellettuali organici della televisione e dei mezzi di comunicazione permette all'apparato di potere mediatico-finanziario attorno a Fininvest di modificare in profondita' l'immaginario degli italiani, privi di strumenti capaci di fronteggiare l'invasione di una nuova cultura popolare; l'alleanza tattica con il PSI illustra bene la mutazione in corso: da una parte, la necessita' di trovare degli interlocutori nel mondo della politica che proteggano questo impero in costruzione e la sua rivoluzione in corso; dall'altra, la trasformazione di uno dei partiti storici della sinistra italiana in megafono della rivoluzione culturale in atto.
Nella seconda fase dell'egemonia berlusconiana, gli “intellettuali tradizionali” [14] si adeguano al nuovo clima culturale, spostandosi gradualmente dall'orbita della sinistra per decostruirne i miti fondativi e la narrative storica e spalancare la porta ad una revisione dell'universo culturale dominante. E' inutile passare in rassegna l'opera di ripensamento compiuta dagli anni Ottanta ad oggi dalla classe intellettuale italiana su concetti come “mercato”, “Resistenza”, “Stato” ecc. Sulla scia dei Nouveax Philosophes francesi e del dibattito in corso nel mondo anglosassone, gli accademici e intellettuali italiani hanno ridisegnato completamente la cultura “alta” italiana, completando cosi' l'opera di ridefinizione della societa' civile del Paese [15]. Benche' la sinistra sia rimasta arroccata nelle universita', nelle scuole e nel mondo dell'arte, la perdita dell'egemonia culturale (mascherata dal mantenimento di una serie di artisti e intellettuali vicini alla sinistra negli ambienti della cultura alta) ha portato ad uno slittamento a destra del dibattito pubblico a tutti i livelli [16], seguito successivamente dal distacco fra cultura alta e cultura popolare durante l'ingresso in politica di Silvio Berlusconi.
Questa graduale incomunicabilita' fra i due livelli dell'universo culturale ha portato inevitabilmente all'arresto del processo di pedagogia civile ed educazione democratica avviato faticosamente nel dopoguerra; una delle principali conseguenze di tutto questo e' stato l'imbarbarimento del dibattito politico in Italia e la progressiva marginalizzazione della sinistra nel Paese [17]. Scatta cosi' la terza fase dell'egemonia culturale berlusconiana: la presa diretta del potere, costretta (o accelerata) dal crollo della Prima Repubblica. Nasce il blocco sociale berlusconiano che consegnera' quasi con regolarita' il Paese al centro-destra, di cui sopra. Non a caso, Claudio Scajola sostiene che “il 'berlusconismo'... riassume un sistema di valori diffusi dei quali Berlusconi è al tempo stesso la sintesi e il garante, il simbolo e il promotore... è la sintesi di una visione della società, dell'economia, della politica, un comune denominatore nel quale le diverse culture, tradizioni, sensibilità e appartenenze che esistono nel centro e nella destra si ritrovano senza perdere nulla della propria identità” [18]. In questo universo valoriale plasmato dagli intellettuali organici all'azienda prima e al partito poi, una vasta sezione della popolazione si identifica senza esitazioni, in quanto rappresenta ormai l'unico messaggio che e' in grado di comprendere [19].


Ripartire da Gramsci

Di fronte alla resisitible ascesa della destra, in questi trent'anni e' mancato completamente a sinistra un tentativo organico di ripartire dalla societa' civile, da quell'egemonia culturale teorizzata da Gramsci. Come ha gia' scritto Davide Nota, “trovo sinceramente comprensibile, razionale ed anche giusto, che da destra si tentino queste operazioni egemoniche. Incomprensibile è piuttosto che la sinistra in Italia non debba mai rendersi conto di niente, o che preferisca (e non ci è dato ancora sapere per quale arcana patologia o fallimentare tatticismo) sempre e soltanto tacere” [20]. Colpevolmente, la sinistra e i suoi intellettuali hanno liquidato l'affermazione di una nuova cultura di massa televisiva e commerciale in maniere diverse, ma complementari: per alcuni, e' stato un non-evento di cui non era il caso di occuparsi; per altri, una materia sporca, bassa, che non aveva nulla a che vedere con la cultura e la politica; altri ancora hanno preferito accettare quest'ondata, adattarsi ad essa; infine, una parte della sinistra ha rifiutato in blocco questa trasformazione, arroccandosi in parole d'ordine e slogan ormai vuoti di significato e incapaci di essere compresi dalla popolazione
Parallelamente, un dibattito utile ma un po' astratto e' quello che ha riguardato il tema della religione civile degli italiani, spesso contrapposta all'individualismo anarcoide e anti-statalista teorizzato principalmente dalla destra [21]. Il discorso sulla lacunosa pedagogia civile degli italiani ha cercato in questi anni di trovare affannosamente una risposta all'involuzione politica e sociale del Paese, individuando nella mancanza di un'etica repubblicana condivisa dalla maggioranza della popolazione il principale problema. Nella debolezza della cultura civile degli italiani, nel loro scarso senso dello Stato e nella loro tendenza al “familismo amorale” e' stato cosi' individuato il principale responsabile della fallita rinascita che la fine della Guerra Fredda e il passaggio alla Seconda Repubblica avrebbero dovuto annunciare.
Pur avendo una validita' innegabile, il discorso sulla pedagogia civile degli italiani ha mancato in questi anni di dettagli e di una strategia precisa. Da una parte, si e' omesso spesso di compiere un'analisi storica concreta dell'indebolimento dell'etica repubblicana in Italia, in particolare negli ultimi trent'anni, e si e' ridimensionato il collegamento fra l'ascesa del berlusconismo (inteso come fenomeno culturale prima ancora che politico) e la mancata nascita di un forte e diffuso patriottismo costituzionale nel momento in cui la crisi della DC e del PCI aprivano nuove prospettive; dall'altra parte, il discorso inerente al rafforzamento dell'etica repubblicana non ha affrontato il tema centrale di come imporsi nella societa', ovvero di come vincere la battaglia per l'egemonia culturale. Per ovvi motivi, e' la sinistra a doversi interrogare principalmente su tutto questo, sia perche' storicamente piu' sensibile al dibattito, sia perche' la pedagogia civile degli italiani e' ormai un prerequisito essenziale per spezzare l'assedio della rivoluzione conservatrice italiana dell'ultimo trentennio.
Per questo motivo, le forze progressiste e repubblicane del Paese devono partire da un'analisi “neo-gramsciana” della realta' politica e sociale italiana; sulle pagine de “La Gru” abbiamo gia' accennato in varie occasioni a diversi aspetti della battaglia culturale che ci aspetta [22]. Il processo di inclusione democratica della cittadinanza, che e' stato interrotto negli ultimi 30 anni e che ha portato al trionfo delle destre populiste in tutta Europa, dovra' essere ravviato per ridare spazio ad un'alfabetizzazione politica delle masse (una funzione svolta un tempo dai partiti). Se la partecipazione democratica e' un evento quinquennale che si limita all'espressione di un voto, condizionata da pressioni mediatiche, culturali, ricattatorie ecc., la decomposizione dello spirito e delle istituzioni repubblicane e' inevitabile. Di conseguenza, sebbene non sia possibile in un articolo del genere tracciare con precisione un piano d'azione, sicuramente si puo' pero' individuare delle aree prioritarie per la battaglia delle idee in cui sara' necessario costruire una nuova egemonia culturale “repubblicana” per i prossimi anni:

- nella scuola, gia' individuata da Platone e Gramsci come centrale nella formazione dei cittadini, sara' importante riportare l'attenzione sulla centralita' dell'educazione civica e della cultura umanistica e sull'unita' dell'attivita' istruttiva, al di la' dell'attuale enfasi sulla specializzazione (fonte di discriminazione sociale) e della contrapposizione artificiosa fra materie scientifiche ed umanistiche [23];
- nell'arte, si trattera' di portare avanti il discorso gia' avanzato su “La Gru” in questi anni, rifiutando l'ideologia della separazione specialistica e il riflusso nel privato [24];
- nei media e in particolare nella televisione, bisognera' spezzare l'attuale duopolio per permettere ad una pluralita' di opinioni, finalmente liberata, di emergere, cercando di garantire un ruolo pedagogico e civile alla comunicazione, regolarizzandone l'accesso, i contenuti e i linguaggi [25];
- un nuovo settore della societa' dove sara' importante condurre la battaglia per l'egemonia e' quello dei think tank e dei centri studi, piu' o meno partigiani, produttori e (piu' spesso) divulgatori di concetti e idee a loro volta ripresi da giornali, opinionisti ecc. Una rete di centri studi propositiva e connessa col sistema d'informazione sara' determinante nella battaglia per l'egemonia culturale;
- nell'universo associazionistico, che e' la dimensione autonoma della societa' civile per antonomasia, si dara' spazio alla partecipazione democratica attraverso un maggiore coinvolgimento nelle autonomie locali, come gia' tentato con successo in diverse esperienze amministrative italiane degli ultimi anni [26];

Questi spunti non rappresentano una lista, ne' un'analisi dettagliata del problema della battaglia delle idee che caratterizzera' l'Italia nei prossimi decenni. Tuttavia, senza avere la pretesa di esaurire il discorso, da questi spunti e' possibile ripartire per tornare a discutere del senso del vivere insieme in questa Repubblica e del futuro della sinistra, con l'obiettivo di vincere lo scontro in atto nell'immaginario collettivo per il consenso spontaneo e cosi' ripristinare la centralita' dell'uomo-cittadino, nella sua unita' fra privato e pubblico.



[1] I termini “destra” e “sinistra” non vogliono rappresentare dei riferimenti generici, bensi' richiamano la contrapposizione fra un'area conservatrice, storicamente vicina a PLI e DC (ma che include anche l'MSI e il cosiddetto “oltranzismo atlantico”) e l'insieme delle forze progressiste, che fino al 1979 sono PCI, PSI, PSDI e PRI. Con la nascita della Seconda Repubblica, l'assetto partitico e' mutato e con esso questa contrapposizione, attualmente facilmente riconducibile ai due schieramenti principali di centro-destra e centro-sinistra.
[2] Bastera' citare due interventi altamente rappresentativi e su cui ritornero' in questo articolo: “Il Berlusconismo e' come Gollismo: durera' a lungo, non e' passeggero”, di Claudio Scajola e “E ora che abbiamo perso, ci vuole Gramsci”, di Angelo Crespi, Il Domenicale.
[3] La Costituzione Silenziosa, Mauro Calise. Un esempio lampante e' l'occupazione della Rai dalle varie maggioranze parlamentari: un sistema basato sulla spartizione partitocratica nella Prima Repubblica (che garantiva, sebbene in modo patologico, un barlume di pluralismo) e' stato trasformato in un campo di battaglia continuo, secondo un'interpretazione molto particolare dello spoils system anglosassone.
[4] Thaksin Shinawatra, miliardario thailandese, ha fondato nel 2001 il partito Thai Rak Thai (“I thailandesi amano i thailandesi”), stravincendo le elezioni nel 2001 grazie ad un programma di stampo populista. La sua esperienza di governo si e' conclusa nel 2006 in seguito ad un colpo di stato militare.
[5] Sulla natura poliforme e complessa del fenomeno berlusconiano: “Beyond the Berlusconi common sense. A new model of politics for the 21st century”, di Paolo Mancini, lezione tenuta il 19 gennaio 2010 alla London School of Economics. Le slides e il podcast dell'intervento sono reperibili presso: http://www2.lse.ac.uk/publicEvents/events/2010/20100119t1830vSZT.aspx
[6] “Fenomenologia di Alfonso Signorini”, di Massimo Panarari, Il Mulino, 4/2009. Si tratta di una breve analisi dei gangli del potere berlusconiano e, in particolare, di Alfonso Signorini, sulla falsariga di “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, di Umberto Eco, in Diario Minimo, Bompiani.
[7] Chiaramente in questo articolo prendero' in considerazione solo i fattori ideali dell'egemonia culturale conservatrice e berlusconiana, non gli elementi materiali, come il passaggio dalla prevalenza del manifatturiero ad un'economia di servizi, la fine della centralita' della classe operaia ecc.
[8] E' la tesi espressa sia in Massimo Panarari, op. cit., che in “An Invertebrate Left”, di Perry Anderson, 12 Marzo 2009, London Review of Books. Entrambi gli autori fanno risalire all'avvento della televisione commerciale l'inizio della fine dell'egemonia culturale della sinistra, cui in particolare il PCI non avrebbe saputo reagire (mentre il PSI avrebbe risposto adeguandosi).
[9] Post-modern coup viene tradizionalmente associato al golpe del 1997 in Turchia, per le sue caratteristiche non-violente, in cui l'esercito turco intervenne semplicemente minacciando l'uso della forza. Sebbene non costituisca una categoria analitica definita nettamente, in questo articolo per “golpe post-moderno” intendo il tentativo di modificare un regime politico, in maniera illegale, da parte di elementi interni allo Stato, senza tuttavia ricorrere all'uso della violenza, almeno come prima scelta.
[10] Sulla rivoluzione conservatrice americana: Reversing Course: Carter's Foreign Policy, Domestic Politics and the Failure of Reform, di David Skidmore, Nashville Vanderbilt University Press e After the Neo-Cons: Where the Right Went Wrong, di Francis Fukuyama, Profile Books.
[11] “Piano di Rinascita Democratica”, reperibile online.
[12] Si tratta di un riadattamento dei concetti espressi in Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, di Antonio Gramsci, reperibile presso www.liberliber.it. Gramsci definisce cosi' gli intellettuali organici: “Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o piú ceti di intellettuali che gli dànno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l'imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell'industria, lo scienziato dell'economia politica, l'organizzatore di una nuova cultura, di un nuovo diritto, ecc. ecc.” Non sembra pertanto una forzatura sostenere che in una societa' post-industriale, dei servizi, gli operatori dei media siano “intellettuali organici”, ad esempio.
[13] Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, di Antono Gramsci, reperibile presso www.liberliber.it
[14] Scrive Gramsci a proposito degli intellettuali tradizionali: “Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con «spirito di corpo» la loro ininterrotta continuità storica e la loro «qualifica», cosí essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante”
[15] Un esempio su tutti: Miti e storia dell'Italia unita, di Ernesto Galli Della Loggia, Giovanni Belardelli, Luciano Cafagna, Giovanni Sabatucci, Il Mulino. Una completa riscrittura della storia italiana, in alcuni punti necessaria, in molti altri discutibile, se non apertamente politica.
[16] Questo fenomeno non e' solo italiano, come abbiamo gia' scritto su “La Gru”, ma globale. Un interessante contributo sulla cancellazione della cultura popolare e il distacco completo fra cultura “alta” e “bassa” si trova in “De l'education populaire a la domestication par la culture”, di Franck Lepage, Le Monde Diplomatique, Maggio 2009.
[17] Questo tema e' gia' stato affrontato in “La crisi del modello ultra-liberista: un'opportunita' per la sinistra”, di Riccardo Fabiani, La Gru.
[18] “Il Berlusconismo e' come Gollismo; durera' a lungo, non e' passeggero”, di Claudio Scajola, reperibile presso www.claudioscajola.it
[19] Angelo Crespi in un suo articolo pubblicato su “Il Domenicale, dal titolo “E ora che abbiamo perso, ci vuole Gramsci”, sostiene erroneamente che alla destra manchi un progetto egemonico; tuttavia, si tratta di un'analisi superficiale, che identifica meccanicamente 'egemonia culturale' col numero di artisti, scrittori, intellettuali ecc. presenti nelle universita' e i media. Inutile ripetere come l'arroccamento (spesso baronale) della sinistra in questi organi rappresenti solo un'ultima “ridotta”, prima della disfatta, o perlomeno un luogo di marginalizzazione da cui non si e' capaci di influenzare il presente, essendo ormai passati dalla filosofia della praxis alla filosofia come svago, come apologia del presente.
[20] “Se la destra cita Gramsci. Invito alla battaglia culturale”, di Davide Nota, reperibile online.
[21] Alcuni esempi: Possiamo fare a meno di una religione civile?, di Gian Enrico Rusconi, Laterza; Repubblicanesimo, di Maurizio Viroli, Laterza; gli atti del convegno “I 60 anni della Costituzione”, Accademia dei Lincei, Roma, reperibili presso: http://www.astrid-online.it/Dossier-r/Studi--ric/60-anni-de/; il numero monografico “L'interesse dell'Italia”, Aspenia n. 34.
[22] “Una nuova militanza?”, di Davide Nota, La Gru n.5.
[23] “I giovani letterati e la morte della cultura”, di Luigi-Alberto Sanchi, La Gru n.5; e “Cultura Greca e Latina”, di Luigi-Alberto Sanchi, La Gru.
[24] “Critica della separazione”, di Davide Nota, La Gru n.5.
[25] Cattiva Maestra Televisione, di Karl Popper, Marsilio. Benche' quest'opera di Popper sia stata spesso etichettata come senile o ingenua, si tratta di un contributo accessibile e ragionevole ad un problema assai complesso, come quello della regolamentazione dei media.
[26] Un esempio valido viene dalle Marche e dall'esperimento della democrazia partecipativa a Grottammare.

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