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Due letture: Piergallini e Guatteri

billviolaDAVIDE NOTA
Due letture: Piergallini e Guatteri


Seguono i due interventi che ho svolto nel mese di marzo 2011 a Roma (in occasione del ciclo di incontri “La poesia è di Casa”) ad introduzione di due autori che considero dei fondamentali della nuova poesia in Italia: Enrico Piergallini (Grottammare, 1975), presentato presso la Casa della Memoria e della Storia, e Mariangela Guatteri (Reggio Emilia, 1964), presentata presso la Sala Santa Rita.
L’intero ciclo ha previsto anche l’intervento dei poeti Stefano Sanchini (introdotto da Fabio Monti), Francesca Mannocchi (introdotta da Maria Grazia Calandrone), Azzurra D’Agostino (introdotta da Attilio Scarpellini) e Luigi Socci (introdotto da Manuel Cohen). 
Tutti i contributi critici saranno presto raccolti, assieme ai testi degli autori, in un catalogo a cura dell’Ufficio eventi culturali del Comune di Roma.
La ripetizione che noterete di concetti già affrontati in maniera più approfondita sulla Gru degli ultimi anni è giustificata dalla natura divulgativa degli interventi, rivolti (per fortuna) ad un pubblico non specialistico.


ENRICO PIERGALLINI

Enrico Piergallini è uno dei principali esponenti di una linea poetica che se è lecito definire sinteticamente e giornalisticamente “Nuova poesia civile” o “popolare” nello specifico rappresenta l’eredità postmoderna di un’area “antinovecentista” della Letteratura italiana (da Umberto Saba a Sandro Penna, dai poeti di Officina alla Linea marchigiana) riassumibile nel verso di Pasolini, da Bestia da stile: “Non parlar la parola ma la cosa”.
La regione Marche, per una sua specifica resistenza in termini di modello residenziale, consegna alla post-modernità italiana ed europea una sensibilità che conserva tra gli attori dello svolgersi letterario la comunità dell’auditorio e dunque la dimensione geografica e storica di uno scambio presente. Per intenderci ci troviamo all’interno di quella che D’Elia definisce la “dorsale umanistica degli Appennini”, nel senso proprio di uno scudo geografico all’influenza uniformante e omologante della trasformazione megalopolitana in atto ed egemone.
Naturalmente non abbiamo qui a che fare con estetiche strapaesane o consolatorie, né vi è traccia di ideologie illusorie della regressione per un autore che ha nel proprio Dna culturale il metodo dell’osservazione partecipata e del pensiero poetante, cinetico e analitico. 
Questa tradizione impura e contaminata della canzone popolare si manifesta stilisticamente nella cantabilità del dettato e nell’utilizzo della rima o dell’assonanza legate al metro umanistico, oltre che naturalmente nella funzione centrale del contenuto rispetto all’autoreferenzialità del virtuosismo stilistico. È la funzione Dante e Baudelaire che continua a svilupparsi, il “canto del cigno che muore” (Gramsci) come nucleo di una memoria tramandata attraversata dall’“arido vero” (Leopardi) del presente corrosivo.
Tuttavia, a differenza di poetiche “della realtà” maggiormente volte ad una comunicazione diretta ed anche emotiva, nell’opera già matura di Enrico Piergallini incontriamo uno stile profondamente meditato, semanticamente intagliato nella materia del mondo circostante (il legno delle barche dei pescatori di Grottammare, il torsolo di terra annerito e smangiato dalle ruspe delle colline marchigiane), attiguo al lento ma inesorabile movimento dei cicli naturali e terrestri che pure agiscono sopra le ingerenze artificiali dell’uomo in un processo continuo di comprensione e rinaturalizzazione.
Ecco un esempio, credo particolarmente manifesto, dalla silloge Scavi e scogli del 2001: “All’improvviso accanto ad una quercia / un’ossificata cinquecento s’è inciuffata, / incarnita d'erba.”. L’ingerenza artificiale della Cinquecento nel contesto naturale del bosco è neutralizzata nel tempo in un processo di naturalizzazione: ossificata e ossidata dalla pioggia essa si fa nuova caverna. Su questo frammento potrebbe fondarsi un convegno di linguistica, perché ad esempio è ciò che accade alla Neo-lingua orwelliana della televisione, ossidata dall’oralità dei territori.
Un ultimo, collegato, elemento: siamo anche all’interno di uno smottamento di prospettiva antropologica simile a quello testimoniato nella pittura a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento europei, quando la crisi dell’Umanesimo produsse in arte un ridimensionamento dei soggetti umani che da protagonisti della “narrativa” si fecero elementi naturali assorbiti dal paesaggio. Parimenti la poesia di Piergallini testimonia una sensibilità cosciente della crisi della cosiddetta “era del petrolio e della plastica”, in cui l’uomo della tarda modernità si è sentito invincibile dominatore del ciclo naturale.
Gli eventi naturalmente forti, spettacolari o catastrofici che stanno ultimamente ridimensionando le certezze della nostra porzione d’umanità vengono da anni percepiti e testimoniati dalle arti letterarie e figurative, che spesso anticipano in maniera anche visionaria ed intuitiva le tematiche che prima o poi si imporranno all’attenzione comune.
In Piergallini, poeta come pochi altri vigile osservatore di questo cambio d’epoca, l’elemento umano è costantemente ridotto e in balia di macro-movimenti geologici e addirittura astronomici all’interno dei quali la condizione esistenziale si trova a muoversi e ad esser mossa. 
Non più un soggetto lirico autobiografico e integralmente chiuso nella dimensione del quotidiano ma una poesia profondamente pluridimensionale, talvolta vertiginosa. A mio avviso la bravura e il talento dell’autore consistono nel consegnarci questo carico di visioni complesse nella forma “popolare” della canzone e del poemetto, una capacità rara di condensazione dei significati e dei significanti oltre che di una loro traduzione comunicativa in grado di non abbassare mai lo spessore della ricerca sulla parola.


MARIANGELA GUATTERI

Chi era presente al precedente appuntamento potrà cogliere il primo riferimento che vado a svolgere, ad introduzione della complessa e variegata opera di scrittura poetica di Mariangela Guatteri (Reggio Emilia, 1964).
Mi riferisco all’indagine sul “punto di vista”, cioè sullo smottamento della voce poetante nella poesia del postmoderno italiano, dal lirico-soggettivo uniforme (la poesia del quotidiano) all’esplosione dello sguardo; esplosione che genera una moltiplicazione delle dimensioni di interpretazione della realtà e a sua volta, come l’Orfeo del mito che smembrato si scioglie nel corso fluviale, un’incarnazione ed immedesimazione negli elementi anche inorganici del reale. In poche parole l’io poetico non coincide più necessariamente con lo sguardo umano, può anche darsi che non sia più il soggetto umano a percepire visivamente e razionalmente un oggetto ma l’oggetto stesso a volersi manifestare nella sua logica e dimensione. 
Necessariamente tale operazione di immedesimazione nella pluralità delle realtà parallele svolge anche un esercizio estremo di relativizzazione della conoscenza umana o delle abitudini di conoscenza (sempre a proposito di quanto dicevamo sulla poesia come premonizione delle metamorfosi anche ideologiche e culturali in atto). È chiaro che ci troviamo nel colpo di coda di una crisi fondamentale del sistema filosofico occidentale, in un passaggio d’epoca ancora difficilmente interpretabile; la “poesia di ricerca” parla la lingua di questo passaggio. 
Essa non dà risposte ma si sviluppa nell’aderenza estrema alla percezione; ed in un’epoca così complessa ed intrecciata di inconsci collettivi, colonizzazioni mediatiche (le paure e i desideri indotti) e retaggi di rimozione dell’esistente (l’eredità del Moderno), è chiaro che una porzione della nuova produzione di opere non poteva fare a meno di apprendere metodi derivati dalla sperimentazione teatrale o delle arti visive e performative, che maggiormente aiutano la messa in scena contemporanea di più livelli di espressione. Abbiamo parlato ad esempio di ritorno all’oralità come conseguenza di una crisi non solo editoriale ma propriamente alfabetica, la parola scritta indebolita e neutralizzata dall’abuso mediatico quotidiano (fenomeno oggi esasperato dalla seconda fase del Web, dove persino l’oralità è un abuso di scrittura). Nel caso di Mariangela Guatteri questa risposta assume i tratti dell’esplorazione live e performativa dell’evento-lettura.
Per intenderci sul plurisguardo mi consento un esempio pop: il cinema di David Lynch, dove l’oggetto - il reale - viene contemporaneamente conosciuto da più angoli percettivi, spesso in contraddizione e senza definire quali di queste angolature abbia la predominante. Solo nella sovrapposizione degli strati può essere conosciuto un mondo verosimile, concetto espresso anche in molte opere dall’artista digitale Bill Viola che nel 2008 ha esposto a Roma un’importante personale.
Quello che abbiamo dunque oggi chiamato in maniera divulgativa “Poesia del flusso – della parola e della visione” si contestualizza in questa trasformazione dello sguardo in plurisguardo.
L’Orfeo che nel mito si scioglie nel flusso degli elementi naturali, si incarna oggi anche negli elementi di una costruzione antropica, cittadina o metropolitana, post-industriale ed elettronica. Se in Baudelaire l’artificiale cittadino era la Seconda natura, noi oggi ci troviamo ben immersi nella Terza natura della vita virtuale, delle relazioni e dei contatti alieni dall’incontro visivo o tattile.
Nella storia della critica d’arte è in voga da alcuni anni la definizione di Post-human, l’estetica del Post-umano che in vario modo affronta gli elementi che ho fin qui disordinatamente espresso. 
Post-human è una definizione vasta e che comprende un mondo eterogeneo, dalle tele ad olio di una pittrice come Jenny Saville in cui corpi nudi di transgender, volti di bambini e tranci di carne da macelleria sono dipinti nella medesima oggettività chirurgica, fino a discorsi meno nichilistici e in cui permane la scintilla della contraddizione vitale, la “resistenza dell’umano”.
In questa lotta tra “soggetto” e “contesto”, tra l’esistenza e l’esplosione della realtà circostante, risiede il motore della necessità creativa.
L’opera di Mariangela Guatteri appartiene, a mio avviso, a questo “movimento” nel senso proprio della direzione in cui essa si sta aprendo. 
Se nel precedente lavoro poetico, il poemetto Quinta di cava e risorti, la forma-canzone tradizionale conteneva questo canto corale degli elementi di un crollo tellurico in atto, nel lavoro che oggi presentiamo, e che ha per titolo Due dimensioni, si fa più evidente la natura anche narrativa e concettuale, già profondamente europea, di una delle più importanti autrici di questo primo decennio del nuovo secolo in Italia.La riforma narrativa, il ritorno alla forma poematica e cioè alla possibilità di sviluppare nei versi azioni e dialoghi, non mantenendosi in una dimensione necessariamente sospesa o di memoria individuale, la volontà di mettere in scena un’azione presente e non solo una rievocazione, una durata in fieri e non solo un istante impresso, sono tutti tratti delle evoluzioni in atto nella nostra letteratura in versi europea che ora non possiamo che sfiorare ma che Mariangela Guatteri riassume ed attraversa.

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