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Per altri versi #1. Impugnare la penna [Diceria dell'ultimo redattore]

ginestra5GIANNI D’ELIA
Per altri versi


Premessa

Riprendo la mia rubrica, che mi tolsero presto all’Unità, non per recensire ma per tentare di capire e non più giudicare chiunque.
Gli scrittori, anche quelli impegnati nella realtà civile e politica del loro tempo, esistono per scrivere opere, possibilmente capolavori, e cioè capi d’opera, frutto di grande artigianato specializzato in passione e ideologia. Ma oggi non c’è più un orizzonte d’attesa dell’opera, bensì del prodotto, e dunque lo scrittore praticamente non esiste più, e gli stessi scrittori d’opere si sono piegati di fatto ad essere scrittori di prodotti, sfornati annualmente.
La tentazione di essere postumi, e cioè di scrivere ma non pubblicare, se non può toccare i più giovani che devono giustamente uscire allo scoperto con le stampe, risuona invece nella testa dei più anziani, che già hanno pubblicato molto e anche troppo, come chi qui scrive. Si tratta infatti di aver progetti di grandi opere, per ora impubblicabili, sia per ampiezza sia per protesta contro l’assenza d’udienza vera che oggi hanno le opere vere.
Penso che una rivista dovrebbe cercare quelle poche opere in versi e in prosa che restano clandestine, per anni e anni di lavoro già consumato, e rilanciarle con ampi stralci e brevi commenti. Una rivista deve scegliere e selezionare il meglio, ma con un progetto culturale preciso: la critica del passato presente e un disegno del futuro in forma poetica e letteraria. Suggerisco perciò agli amici della “Gru” di cercare, a partire dall’ultimo poema di Roberto Roversi, il meglio in corso, che resta semiclandestino (32 copie per L’Italia sepolta sotto la neve), e di riproporlo con brevi studi e commenti.
Chiusa la premessa, ecco il mio primo articoletto di metodo, o di confessione.


***

Impugnare la penna
[Diceria dell’ultimo redattore]

Ringrazio molto, offrendo qualche spunto critico, meditato. Scrivo agli amici della “Gru”, che mi hanno voluto in redazione. Scrivo, ma è come se parlassi. D’altra parte, battendo ancora un’Olivetti meccanica, entro nel grande orecchio della rete, che in realtà è una grande bocca bulimica, come un clandestino pre-elettronico; della qual cosa un po’ mi scuso, né mi glorio. Fino a quando ci saranno nastri inchiostrati, non vorrò avere uno schermo davanti anche quando scrivo, ma carta vera, vera pressione delle dita, meccanica fatica; comincio da qui, perché io mi sento un po’ estraneo al mondo che mi accoglie anche adesso, in questa grata forma elettronica dell’amicizia. Io sono qui sul mio foglio, come agli albori politici del 1973; come agli albori culturali del 1975, quando fondammo accanto a Lotta Continua il Circolo Ottobre; come agli albori letterari del 1980, quando fondammo la rivista “Lengua”, dopo che si era esaurita la spinta comunicativa della radio libera tra il 1976 e il 1978, con il cuore pulsante e velleitario del 1977.

Cosa è rimasto di quegli anni? Forse, non ho scritto altro in tre decenni, cioè da quando si resiste ma non si lotta più. È rimasta la traccia di una resistenza, che con Katia Migliori ritrovammo in “Officina”: una critica culturale della politica, e una critica politica della cultura letteraria del Novecento.
Una critica poetica dentro la storia, con problemi e domande, documentazione delle opere in corso (in versi e in prosa), a livello critico e di ospitalità creativa, conversazioni di studio con poeti, scrittori, uomini e donne di cultura, anche se mancarono le inchieste sul campo di qualsiasi argomento economico, sociale o culturale, che continuano a mancare anche sulla “Gru”, rivista di poesia e realtà.
Ed è tanto più grave, dato l’impegnativo portale definitorio.

Certo, “La Gru” ha evitato già l’autoreferenzialità, così narcisista e imbarazzante, delle riviste poetiche alla “Atelier”. Rileggiamo Roversi: derisione delle magagne pubbliche, utilità per gli altri, indicazione sottile di problemi proposti, o accettati, e risolti; e il presente drammatico, per tutti noi, sempre il grande presente dantesco, proposto e ricuperato con sforzo, con uno sforzo fisico, da corda che si tira, e magari con cupo livore; la realtà affrontata in modo diretto, tra fascino, oscuro fastidio e disordinato rancore, senza accettare più le condizioni di riposo o di attesa; ci si dispone a impugnare la penna, per il dove degli anni passati, rifugiati, estinti.
“Ogni lotta, ogni lotta si svolge sul ponte”: con Pasolini, Sereni, Caproni, Fortini, Volponi, Sciascia, gli ultimi scrittori corsari. E adesso? Si abiura (e cioè ci si separa) da qualcosa (con la pedanteria di Sanchi).

Si sa, non basta certo l’abiura dall’ambiente, titolo un po’ infelice dell’editoriale indipendenza. Certo che alla fine si capisce: è l’ambientino letterario degli organizzatori di cultura di massa, ma il sintagma stride con la difesa dell’ambiente (paesaggio e umanità) della sinistra di sempre. Abiura scontata dai clan, dalle cerchie, dai centri decisionali centralistici (editoria e stampa), distributivi (radio e televisione), del piccolo sistema letterario italiano.
Primato della creazione, d’accordo, della sperimentazione, senza troppi profili d’autore, ma per opere e temi nuovi.
E allora tirare subito fuori quegli estratti di opere selezionate, da indicare ai lettori: corposi inediti di prosa o poemi stralciati, ma importanti, fortemente selezionati.
“Officina” pubblicò Il libro delle Furie di Gadda; “Lengua” il testo eponimo di Res amissa di Caproni, i poeti neovolgari.
Insisterei con le conversazioni di cultura, che dovrebbero oggi fare le nuove generazioni, andando a sondare di nuovo Roversi, Pietro Ingrao, Giuliano Scabia, come dire la poesia e la politica e il teatro d’opposizione del secolo passato.
E poi le inchieste: sulla scuola, sui precari, sul crimine mafioso ed edilizio della devastazione adriatica?

Ma veniamo al ben fatto, ben detto, fino ad ora.
Da regionale, la buona “Gru” si è fatta nazionale. Viva.
La memoria storica delle stragi italiane del secondo Novecento, e la campagna poetica di Calpestare l’oblio contro il regime berlusconiano; più che i vari interventi letterari e di poetica generale o di contesa specifica interna all’ambiente (di cui spesso si patisce ancora il linguaggio gergale, troppo settoriale ed astratto, fino ai limiti del lecito), sono queste le due medaglie della “Gru” conquistate sul campo, politiche, organizzative, di pubblica lettura, associanti.

Insisterei con la Ginestra: ripudio della guerra, ecologia solidale. Penso che in futuro dovremo cercare di chiarire meglio il senso leopardiano, marxiano e gramsciano, di una poesia della politica, per dialogare con l’ipotesi organizzativa di Vendola; di una politica di poesia contro la politica di prosa di sempre, che faccia entrare nel conto il vero e il bello, e non solo il necessario e l’utile; e che insista poi politicamente per un ministero della cultura e della pubblica istruzione governato dagli uomini e dalle donne di cultura, e magari dai poeti, per un rilancio della cultura umanistica integrale, della antica Ginestra, da affiancare al nuovo Ulivo.

Rileggiamo Roversi, su Sereni: nulla adesso è più raccontato o descritto entro fumi nebbiosi. Chiara la tensione, e chiaro il linguaggio, uscendo dal linguaggio dell’ambiente ristretto, dal gergo culturalistico, dal già visto e già detto, verso l’impensato della forma e il non-sentito della vita, che è contraddizione e compresenza di opposti, sempre; e quindi, portare la vita dentro la poesia, portare la poesia dentro la vita, non si escludono, ma si intrecciano nel lavoro quotidiano dell’utopia poetica, nel politico sogno di una cosa, per l’individuo personale, e contro l’individuo socializzato.
Buon lavoro a tutti noi, e abbracci leopardiani, o luxemburghiani (il Pane e le Rose di Rosa Luxemburg), sempre compagni.

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