
Appunti per un discorso sugli intellettuali in Italia. (1. A guisa di Pasolini)
Scritto da Marco Di Salvatore Lunedì 08 Novembre 2010 10:39
MARCO DI SALVATORE
Appunti per un discorso sugli intellettuali in Italia. (1. A guisa di Pasolini)
Festival del Teatro di Gioia Vecchio (AQ), una serata attesa: sul palco, più raffinate che mai, le mitiche Marina e Nicky, cantanti giovani ben apprezzate dai buoni intenditori della buona musica italiana, leggono alcune delle più belle poesie di Pier Paolo Pasolini accompagnate dall’immancabile e soavemente ineccepibile jazz-band. Il sassofonista anche è famoso! Tornano alla mente tra l’altro i memorabili esperimenti del mitico Giorgio Albertazzi... (tra tutti il suo mitico Shakespeare in Jazz...)
Puah, quanti spropositi. Oggi peggio di allora. E non manca mai come icona della “lotta al potere”: dello spettacolo a sinistra. Nello stesso tempo, opinione dei più radicali (più e meno eruditi) e illuministi: basta con la mitizzazione! Oppure: è stato il cavallo di troia della nuova borghesia italiana... era un cattolico... scriveva sul corriere... difese la polizia... troppi sensi di colpa... (ah già!) andava coi ragazzini... ecc... ecc... ecc
Nello specifico: i colti
Da una parte i buonisti e dall’altra gli insolenti, parlo dei colti disobbedienti nel deserto d’Italia, a guisa di Pier Paolo Pasolini, ad esempio. I dotti italiani dividiamoli in due tipi: chi è insolente nei confronti dell’uomo che prega, e chi offre arrogantemente il proprio buon sorriso caritatevole al santo che li bestemmia (un sorriso che lascia incapaci di tutto e con in più tutta un’eternità per una reazione per sempre impossibile... fermi nello stesso “per sempre” che arena anche il verbo, anche la Bestemmia). Si tratta – si deve trattare purtroppo – del cerchio dei “sottoumanisti”, che reagiscono come credono di potere, al mito che li annienterebbe.
Se il consumismo per definizione toglie di mezzo l’etica, ora come non mai è palese: quanto conti la realtà di un’etica piuttosto che la sua moralità, perché senza realtà la moralità è solo moralismo e nient’altro. O buono o cinico, il sottomondo dei colti italiani (non si generalizza che per osservazione strutturale, e ancora: per precisare chirurgicamente che sono in effetti tutti uguali) appare come abitato di morti che non si comportano in nessun modo. Terzi poi (“la sintesi” del macello) affermano di essere gli unici vivi! Ripeto la constatazione, distaccandomi dal panorama ripugnante: se il consumismo segna la fine dell’etica, mostrata nella società dello spettacolo, nelle sue statiche dinamiche e inquietanti, allora non ci si comporta in nessun modo e si dice tutto: il già detto. Il di già detto, mai e poi mai il già dicente.
Passando al suo cinema, e dicendo di voler così “cambiare patria”, Pasolini dichiarò morta la letteratura, morta la lingua, la patria, la storia. Per rinascere in chissà quali mostruosità, e chissà in quali miracoli. Lasciando alle storie questo domandarsi, a proposito del letterario: letterario è il già detto, letterario è il già vissuto. Sappiamo che la società dello spettacolo ha finito per tutto reificare in una paraesistenza morbosa e anti-materiale, e perciò anti-spirituale. Non solo: “l’era del virtuale” (e non si parla che dei ragazzini – anche adulti – impegnati tutti nervi e viscere in quei cazzo di giochetti!) ha risolto, in vero ha consunto l’annosa maledizione della memoria, dei ricordi, della distanza, della nostalgia, insomma dell’immaginazione, e della coscienza: la mutazione antropologica si mostra in tutta la sua mostruosità. Non più uomini ma sottouomini, alieni, chissà. Fino a che la pandemia dell’ipocrisia è sterminata dalla vera Poesia... assolato macello, solito miracolo, solicello.
Si stanno parlando i fatti, che i “colti” si ignorano: i gironi di dannati non li vedono? Le miserie e i vuoti e i coprifuochi e le deportazioni nei lager... si parla di tutta roba vista coi propri occhi, reagita con la propria carne, tessuta nei propri sogni. Generazioni semplicemente smarrite, aliene [1]. I trentenni calvi come i bambini, le donne anziane consunte come le ragazze ecc: e ciascuno è La Cultura... è fatto di questa dannazione che reagisce o che lo trapassa e ignora. La bassa carnagione che spopola, in perpetuo altolà, i marciapiedi e i negozi e le case stesse, è frutto (fruttaccia da girare nel secchio del maiale) e fiore dell’ideologia consumistica: la cultura che ciascuno incorpora, e scorpora. Un conformismo che ha mutato l’essere, non solo umano, semplicemente nel non-essere: perché essere tutti uguali significa non-essere. Essere vitali significa essere diversi. La vita è Altro.
Pasolini, essendo diverso (da sé stesso), essendo contraddizione, contestazione vivente nei confronti anzitutto di sé, della propria educazione, amore per la tradizione e odio per il letterario, – a cui da vero poeta ha posto tra le sfide più tragiche ed emozionanti di tutti i tempi – Pasolini ebbene è amato e odiato per l’uguale (motivo): può aprire ad una crisi tragica, a una primavera di sangue. I buonisti e gli insolenti lo tengono in uguale “considerazione”: capro espiatorio per chi si vergogna della propria pietà e per chi si vergogna della propria crudeltà. Per continuare a non-essere, credendosi.
La stranezza è irresistibile: non vi accorgete che il giudizio di Pasolini basta ad annientarvi?
(rivolto a chi si pronuncia dietro la sua figura)
Impegnarsi è fare che la propria vita non sia “letteratura”. Non basta essere colti, occorre esserlo davvero. Fare che colto sia quello che è stato: un participio passato. E quel che sarà...
Sono rarissimi i colti, tra gli intellettuali. La felicità del possesso della cultura è la felicità del possesso di sé. Si sa bene che si tratta di una felicità da dover morire, in quanto felicità, madre d’affanno. Pasolini il grande artista manicheo [2], è la sincerità di questa opposizione del sangue, la radicalità di una contraddizione, un mito. La sua ingenuità “super-colta” è vera e propria dialettica, creatrice di mondi e musicale, in seno all’essere. «Solo l’amare, solo il conoscere/ conta, non l’aver amato, /non l’aver conosciuto. Dà angoscia/ Il vivere di un consumato/ amore. L’anima non cresce più» [3]. La sua morte è la morte/rinascita del mettersi in gioco: getta nella lotta, lotta con la paura, prova coraggio.
Oppure, il senso della fine e la fine del senso: la sola realtà che sussiste all’ideologia della cultura di massa è il paesaggio martoriato, estinto. Il paesaggio degli uomini, e il paesaggio dell’essere. Nella pace, in quell’ottimismo democratico... certo si copre come si può la carogna di cui si avrebbe vergogna, nello sterile grembo, esangui ormai e stanchi di abortire quella ipocrisia rivoltante che è la pietosa carità, la carità arrogante e morbosa perché piena solo della propria vergogna. Dall’altra parte, ugualmente, l’insolenza, e il disprezzo eletto «a cifra del proprio gusto estetico» [4]: idem, nient’altro che vergogna. L’arte, il pensiero, la cultura italiana, (negli intellettuali) recitano la loro parte sul set ovunque esteso del “Palazzo”, luogo del potere nella sua estrema accezione: il Potere è quel tutto che si può alieni da sé stessi, che può tutto solo perché ignoratosi. È perciò un potere illusorio, realmente trama dell’impotenza. L’impotenza è la sua reale carne. Ma altro è fare quel che si può, che nell’onesta anima antica come nell’intellettuale serio come in tutti gli uomini in gamba... ma perché “il popolare” è spesso feroce con l’intellettuale? (Sappiamo quale ruolo ha giocato in Italia la spettacolarizzazione e la “condivisione” (mediata) di questo sentimento). Ma “l’odio per l’intellettuale” non è semplicemente invidia, o almeno non lo è che in determinati casi, cioè nei casi in cui ad essere odiato è un vero colto. Ma generalmente il disprezzo che pone in competizione l’intellettuale e “l’uomo ignorante”, o che li rimuove a vicenda, è il piano medesimo su cui sono l’uno antitesi dell’altro: i loro due non-essere. E invece bisogna essere. In questo quid che apre l’esperienza dell’individuo sta l’eccesso di cultura, «per una cultura e in nome di una cultura, in quanto si tratta di una cultura “diversa”, proiettata verso il futuro, e quindi al di là, fin da principio, delle culture perdute». Sta nel non definire nessuna cultura come identità statica e chiusa, bensì considerarla come cultura a venire. L’intellettuale prima d’essere umanista deve o non deve essere un uomo? Si potrebbe insinuare che per definizione l’umanista ha la volontà di diventare l’uomo che non è (e chi può dire di essere sé stesso senza impegnarsi a viverlo, a diventarlo?). L’intellettuale arcigno cinico e insolente, che si vergogna della propria pietà, ha abbandonato il coraggio di non credersi, serbandone soltanto certa confortevole modestia. «Questi attori sono i più pericolosi perché sono capaci di tutto tranne che della sincerità, tanto umana quanto sulla propria “opera” (ovvero, recitano la contraddizione pur di non contraddire la recita)» [5].
Che significa esattamente “vergognarsi della propria pietà”? o anzi “vergognarsi d’essere nella pietà, vera e propria, come nudi”? Significa questo: nella pietà, coloro i quali (tutti uguali) si credono “in quanto credono di possedere la cultura”, non potrebbero che piegarsi come vermi spezzati e chiedere aiuto, supplicare e mordersi le spalle, insomma non poter essere che “pietosi”. E di questa ideale e reale condizione non possono provare che vergogna. È la condizione reale e ideale del potere in quanto mostro dell’impotenza.
Lo spirito, la dignità mondana,/ l’intelligente arrivismo, l’eleganza,/ l’abito all’inglese e la battuta francese,/ il giudizio tanto più duro quanto più liberale,/ la sostituzione della ragione alla pietà,/ la vita come scommessa/ da perdere da signori,/ vi hanno impedito di sapere chi siete:/ coscienze serve della norma e del capitale
Non si supera, non si distacca davvero, non la si possiede la cultura, o la realtà, standone al di fuori: assolutamente, mai. E nemmeno avendo lo scettico sguardo sul mondo che “tutto è irreale”. Lo scetticismo, anche come l’irrisione dell’ingenuità, è dogmatico ed è tautologico che tutto sia irreale: sarebbe irreale anche il proprio scetticismo. Barthes diceva: la troppa scientificità è per mancanza di sottigliezza. È infatti con scienza che si deve essere scientifici. «La sensibilità è tutto. Ma, soprattutto, è l’antidoto più forte alla pericolosità crescente dell’intelligenza» [7]. Di che pericolosità si tratta? Ebbene, si tratta dell’illusione di potenza, cattolicamente maritata alla potenza dell’illusione: un mariage fra donnette che disastra solo e non fruttifica. Quando invece bisogna essere parte dei fenomeni per conoscerli e per disimparare. Non credere di essere, non credere di sapere, ma saper essere: morire il proprio sapere. Tutto il resto è paura e vergogna.
(Sfogo improvviso)
«Chi tra i dotti e gli eruditi ha urgenza di scorreggiare sul mito di Pasolini (apparentemente per amore della verità e contro “la mitizzazione”) si piscia sotto dall’urgenza di omettere la propria rozzezza, la propria insensibilità. È semplicemente insensibile (banale questa osservazione?). E l’insensibilità è: senza coraggio. Quello che stupisce è che si sente la stessa puzza tra nuovi marxisti o comunque tra nuovi “dissidenti”, nuovi nel senso di nati intorno agli anni settanta: la generazione che Pasolini riteneva portatrice della summa dell’imbecillità, gli insopportabili, i disobbedienti conformisti. Odore di arcigno, di pettegolezzo ricercato, tra una bevuta di psicofarmaci e una mangiata d’unghie condita nella sugna dei capelli. Cape pelate comunque (non di rocce ma di larve mosce). Di una noia mortale. I disobbedienti “anti-conformisti” eruditi e sghignazzanti, oltre a non essere che zombie in quanto smidollati (privati dell’anima, vergognosi dell’anima, afoni) sanno gettarsi feroci (e dimostrano di averlo soltanto semmai tollerato) sull’eccesso che li riguarda, che li mette in gioco, che sconforti la propria coscienza, mentre esaltano – a “parole” – solo quell’eccedere che non li tocca. Non si accorgono che solo il giudizio di Pasolini basta ad annientarli? Perché lo (si) omettono? Affrancati dal luogo comune della pietà – la loro pietà non può essere che moralista – sghignazzano e provocano, senza sapere di sapere che sono derisi e provocati da chi ha eccesso di cultura (essere davvero colti, ripeto, significa eccedere la cultura, stare sulla soglia, tenere l’uscio e l’ascia, non guardiani assoldati ma come ululanti indiani, difendere – ma è ridicolo! – il sacro focolare e bruciando le sterpaglie correre le valli malaticce e stagnanti e i dorsi fumicanti dei vulcani! Essere umili, non modesti. In che consiste quest’eccesso: nel muovere le chiappe, in ballo, nel combattere, nel fugare, nel fuggire, nell’Essere – viventi – carismatico morente la propria vita. L’eccesso di cultura è l’Arte, l’eccezionale: eccezione, ma originaria e ri-conoscente, memoria futura, Musicalità). Ma si prendono seriamente? Se autoironici, è per non prendersi per niente, per scappare. La loro colpa – dovuta al loro cattolicesimo, solo al loro – è questa: provocano, ma non provocano loro stessi; vorrebbero scandalizzare, ma sono moralisti. Perché si vergognano della propria vergogna. È una vergogna pesante, su cui si tiene una vita intera. Avevano forse una sensibilità ma sanno di non poter essere esempi di lotta, di vita, di giovinezza, di allegria, di grazia. Parlo dei “dissidenti” insolenti: contro i falsi sentimenti della falsa coscienza, certo, ma impotenti a provarsi fino in fondo nella coscienza “oltre”, ecceduta, nei sentimenti veri: per deficienza, di carisma. Preciso: i sentimenti – veri – consistono nel carisma: vitalità, vivacità, coraggio, svago. E la grazia de “gli occhi ridarelli”, che non per falsa coscienza ma per “esperienza” fatta in secoli e secoli in tutti i mondi, è reale. È la grazia, il de-pensamento, la lievità, è L’Aperto (della gabbia, di tutte le gabbie). Tutti lo vogliono tutti lo cercano (è dall’impotenza a Trovare che nasce il Potere... i servi del potere).
E il mio linguaggio così odioso è il segno certo della mia contaminazione. La mia infelicità è mia ed è colpa mia.
Ma chi sa ridere? Guai a chi sa ridere!
(Dico in realtà alcune cose molto interessanti. Per concludere che: non possono capire... quanto è semplice. Hanno dimenticato il mito. Hanno Dimenticato. Perché perché... sono laicisti, razionalisti, irrazionalisti. È banale? Sono noiosi!).
Fine dello sfogo. I Buonisti
Soprattutto alle estati tocca sopportare le masse di buone canaglie invadere le strade e i borghi che furono dei contadini. Nelle pietre, lo capisce anche uno stupido, c’è tutto un durare di secoli: che poi è stato d’improvviso reciso, amputato. Le case sono solo case, sono fatte per il sangue e il midollo che là pulsa, degli uomini e delle donne, degli animali. E l’odore di paglia e di merda e gli odori che risalgono con la pioggia. Sono il sangue e il midollo di chi ci abita. Nelle orge ben vestite di felicità borghese, nei ripugnanti festival estivi della buona cultura le casine non sono niente se non l’edificazione assolutamente arbitraria del proprio benestare, il quale trova luogo solo e soltanto perché – anche questa verità con poco sforzo diventa accessibile a tutti – i contadini sono tutti spariti! Perché la vita nelle campagne che durava da millenni è stata spazzata via, e perché le città stressano. Orribili sottouomini (soprattutto le donnette) che vogliono tutto: possono mantenere ciò che credono d’essere solo alternando all’appartamento in città la casina in campagna. Si restaurano i vecchi borghi. Ma uno che è figlio di contadini e che è anche colto, che per sempre vivrà il lutto immedicabile di aver perso per sempre la carne della propria carne, non può che osservare dalle altitudini imponente questa ritirata di massa stomachevole ed esilarante. E i bravi contadini rimasti come indiani delle riserve, ubriachi, a dilettare certe buone serate, a far scompisciare, a fornire del formaggio fatto in casa e dei salumi le primizie ai migliori consumatori. Oh le loro belle figure fiere di giocar bene a fare i totali imbecilli alienati! Io sono più che convinto che non sia vero mai che vogliano bene al paesaggio, che amino la gente dei luoghi. Anche se denunciassero cavallerescamente gli obbrobri delle grandi industrie, le brutture clamorose che – oltre a pungere una loro educata sensibilità alla bellezza – rovinano la bella cartolina in cui vogliono illudersi di trascorrere le villeggiature: non possono liberarsi dello sguardo letterario, esattamente ciò che Pasolini sfidò col suo Cinema. Perché bene stanno nel loro vivere letterario. Possono anche impugnettare il crocifisso di Pasolini e la furia missionaria – trovando piazza pulita – tramutarla in un bel rinfresco: sarebbe colmo della più abietta ignoranza borghese. Organizzare le belle serate della cultura buona, in cui il prestante e viscido attore teatrale di turno (Pasolini lo ha distrutto il teatro borghese!) legge con voce calda, posata cortese, la solita voce cortigiana e servile... e che cosa legge? Pasolini! Oh ma i versi volgarizzati e derisi, degradati, fraintesi nella peggiore letteratura, quella della “buona serata”, che Pasolini com’è ovvio trovava ripugnante. Oppure leggere, rifriggere un originale Pasolini in Jazz, cazzeggiare, e il buon pubblico di suore ebeti ed erudite li ascolta i cortigiani e le cortigiane servili e volgari.
Chi ne porta il santino della propria buona coscienza (si) ignora: Pasolini è bestemmia, è crimine, è lotta contro se stessi, coscienza, ragionamento, contrappunto; è L’INCIVILE (se sono così lontani, così alieni dalla sua lezione reale, perché ne sono così candidi ossessi? Perché lo portano sempre e ovunque possono? Soltanto allo scopo inconscio di rimuoverlo e di ometterlo? (Un mito è presente... non si può non avvertirne la presenza). Io so: che devono omettere se stessi, ché per sé stessi nient’altro conta). Pasolini diventa l’icona dietro alla quale nascondere le proprie vergogne. Ne risulta anzi quel gaio compiacimento di una trasgressività progressista, che invece è priva d’emancipazione.
Ma che lingua pesante che hai? Sì, è per scrollarmela con ciò che più mi pesa ovvero: la dismisura (la totalità della misura) della spudoratezza (la totalità della vergogna) della pietà. Lo spirito d’alto bordo. Dichiaro di amare chi sa vergognarsi e chi sa misurarsi.
Ribadisco qui il mio disprezzo per tutta la buona musica [8], e senza occhi ridarelli [9].
[1] Da quando ho supervisto La Cosa (The Thing, 1981) di Carpenter mi accade purtroppo di provare quel gelo – a volte comico – nel temere di trattare col non-essere umano. A parte i casi eclatanti (politici, vip, consumatori forsennati, puri medi ecc) anche i miei amici, e il mio me stesso, potrebbero essere La Cosa, che li avrebbe perfettamente emulati, malgrado si comportino come se (come se comportandosi) i ricordi fossero loro. Potrei accorgermi da certi sguardi, da certi tic, da un’inspiegabile percezione del tono, della grana vocale, e anche per una sorta di visione allucinata e stralucida che sto parlando con La Cosa, chissà. Generalmente anche gli animali domestici sono alieni (quasi effetti virtuali per un film sul giurassico, specie i cagnolini arzilli allergici all’Aria Aperta) e i rimanenti (gli animali d’allevamento, e tutti gli animali della terra e dei mari) sono comunque miliardi di briciole di cose in pasto a La Cosa. La quale non solo abita nelle nostre case, tra divani o intorno alle tavole apparecchiate: è anche il prato, e, per chi sa osservare, sarà evidente che anche gli alberi lo sono, alieni. E cosa non lo è, serve comunque, lo ripeto, a nutrire La Cosa: e verrà divorato e divorerà.
[2] Così Chiara Daino in Metalli Comedia, Pesaro, Thauma edizioni 2010, pag 32: «E scese’l grande artista manicheo/ che tra contrasti interni e altrui giudizi/ avea assommato il mito d’esser reo,/ demoralizzator con bragie e tizzi/ di quello mondo, vecchio et muffito,/ che lo demonizzò con salmi vizzi.»
[3] P.P.Pasolini in Le Ceneri di Gramsci Milano, Garzanti 1957
[4] Cfr. D. Nota, Abiura dell’ambiente, o dell’indipendenza, La Gru, editoriale del 2010/11 a firma di Davide Nota e Gianluca Pulsoni
[5] G. Pulsoni, idem
[6] P.P.Pasolini, Ad alcuni radicali in La Religione del mio tempo (Milano, Garzanti 1961)
[7] G. Pulsoni in Abiura dell’ambiente, o dell’indipendenza, La Gru, editoriale del 2010/11 a firma di Davide Nota e Gianluca Pulsoni
[8] Oltre ai già altrove denunciati gli Allevi gli Einaudi ecc, si vuole alludere a qualunque contaminazione solo nominale o virtualmente musicologica del jazz, delle musiche tradizionali, “l’entiero globo borghesito” che crede abitare dalle preistorie transnazionali alle foreste oltre il tempo (ma è in realtà una calligrafia non il linguaggio del Proprio Corpo, su cui ci si accanisce a erudirsi) I “viaggiatori” si spicciano solo a cambiare la loro libera visione stereoscopica.
[9] P.P.Pasolini, Gennariello, in Lettere Luterane, L’Unità/ Einaudi, 1976, pag 17 (« Basta, in tal caso, che i tuoi occhi siano ridarelli »).
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