



ANNUARIO 2008-2009. In questo numero: La nuova residenza - La sinistra da rifare - Letture e cantieri - Resistenze orientali - Interventi - Paesaggi e visioni
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Un saggio di Riccardo Fabiani
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Scritto da Davide Nota Lunedì 24 Novembre 2008 02:30
DAVIDE NOTA
Una sinistra di poesia e realtà. Incontro con Nichi Vendola
Spesso mi aggiro per Roma, alla scoperta del mondo. I tramonti incandescenti che si riversano come uno smalto infiammato sui cornicioni dei palazzi, le metropolitane che trasudano sguardi e accenti, le lunghissime passeggiate tra gli scheletri del passato e il magma contemporaneo: tutto è qui per me informe e commovente umanità.
Pasolini non è mai stato ucciso, è ovunque. Me lo ripeto spesso, quando incontro le sue assonanze spurie, la sua inquieta vitalità, in ogni porzione di strada, di cielo, di casa.
Oggi Accattone sarebbe probabilmente un ragazzo senza permesso di soggiorno, momentaneo inquilino di un campo nomadi. Ninetto sarebbe invece un giovane precario, senza busta paga né orizzonti stabili, abitante della estesa periferia senza centro di una delle nostre province europee.
E' in questa ferita trasversale del mondo, dove reale è l'esigenza di un nuovo straccio di speranza, e dove più acre si fa la sete di esistenza e di riscatto dal vuoto di una saccheggiata Polis, che una nuova sinistra potrà ritrovare le sue più profonde, arcaiche ed intime ragioni, che non parlano di “iconografia” o di “ortodossia ideologica”, ma di amore, speranza e fiducia nell'essere umano.
I miei incontri con Nichi Vendola, durante l'assemblea “Le belle bandiere” (Roma, 27 settembre 2008), e durante la prima conferenza stampa dell'associazione “Per la sinistra” (Roma, 7 novembre 2008), avvengono all'interno di questo condiviso sentimento poetico e politico.
Davide Nota: Abbiamo parlato sulle pagine de “La Gru” di “interruzione culturale” e di un “trentennio”, 1978-2008, di graduale smantellamento delle nostre culture di riferimento, umanistiche e popolari. Dopo le stragi di Stato e la guerra civile degli anni '70, il Piano di Rinascita democratica e l'utilizzo acculturante del mass-media televisivo hanno completato e definito la deviazione antropologica della nostra Polis, tradotta in massa di corpi senza posto, individui senza soggetto, prigionieri di un irreale ciclo di terrore e distrazione. Come attuare, in un contesto di strutturale dissociazione, un ricominciamento politico, poetico, umanistico? Come porgere la mano? Quale lingua parlare?
Nichi Vendola: Credo che sia fondamentale l'analisi profonda, non semplicemente di costume, ma l'analisi sociale, l'analisi politica e l'analisi culturale della sconfitta della sinistra. Noi dobbiamo fare un lungo lavoro di elaborazione del lutto, dobbiamo evitare di utilizzare categorie come quella del “tradimento dei traditori”, che rappresentano una comoda scorciatoia per non guardare a come già nel cuore del Novecento ci fossero i prodromi di una lunga sconfitta. La lunga sconfitta comincia all'indomani del punto più alto di contestazione, di critica corrosiva degli assetti dominanti, materiali e ideologici, del mondo, cioè all'indomani del '68. Per la prima volta la piramide del sistema capitalistico viene contestata non soltanto alla sua base, laddove insistono rapporti di produzione e la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, ma viene contestata al vertice della piramide, là dove ci sono i segreti della riproduzione dell'egemonia culturale delle forze capitalistiche, cioè là dove ci sono gli statuti riproduttivi del mito della “cultura”, del mito della “neutralità della scienza”. Il '68 compie un'opera rivoluzionaria in senso proprio, nel senso di andare al cuore del Capitale, e il cuore del Capitale è l'ideologia, e di svelare, demistificare, storicizzare il cuore dell'ideologia capitalistica. Dall'indomani comincia questo lungo lavoro di seppellimento delle domande sociali del '68, che non vanno semplicemente lette in chiave di nomenclatura dei gruppuscoli extraparlamentari, vanno lette nel senso sociale che esse hanno espresso, e questo lavoro lungo di seppellimento ha portato, alle ultime campagne elettorali, la destra a presentarsi come portatrice di un programma fondamentale che era la soluzione finale della “questione del '68”. Da Berlusconi a Sarcozy il tema di “uccidiamo il '68” è stato un tema sovranazionale, decisivo, e in questa uccisione la sinistra si è trovata profondamente scissa dalla storia reale, non dalla storia ideologica, di quegli anni, perché la sinistra italiana ha progressivamente abbandonato la centralità del tema degli apparati della formazione, scuola e università, la centralità del tema della questione meridionale, cioè la sinistra si è progressivamente separata dalla propria radice di classe, dalla propria radice sociale, e si è invaghita di una modernità tecnocratica che la ha disidentificata, che la ha inquinata proprio nella credibilità del suo linguaggio. Ecco, ho detto delle cose un po' rozze, generiche, ma dentro c'è l'assalto al cielo, il crollo delle società che io ho sempre chiamato del “socialismo irreale”, piuttosto che del “socialismo reale”, cioè c'è una lunga storia che va naturalmente analizzata, pezzo per pezzo. Noi siamo come nella pagina biblica, persone che hanno la propria città che sta bruciando. Mentre ci allontaniamo dalla città dobbiamo come nella Bibbia girare la testa e vedere la nostra città che brucia, anche correndo il rischio di essere trasformati in statue di sale. Però dobbiamo vedere le fiamme della nostra città, le fiamme che hanno bruciato il comunismo novecentesco, per poter capire che cosa è accaduto, per poter ricominciare una storia nuova, non la caricatura miniaturizzata delle storie vecchie, ma una storia nuova.
DN: Questa storia nuova comincia però tra i detriti di una città letteralmente rasa al suolo, e non solo dalle “bombe al grappolo”. L'altra faccia della medaglia dell'egemonia militare neo-liberistica, è il colpo di coda di un'egemonia culturale considerata fino ad ora invincibile, e cioè quella “colonizzazione del desiderio” di cui parla Guy Debord ne La società dello spettacolo, che oggi si traduce radicalmente nella percezione di una condanna generazionale alla “non significanza”, ad un isolamento assoluto ed astratto nel pantano disperato del nulla di massa. Io credo che la rifondazione di una sinistra non possa assolutamente prescindere dalla volontà marxiana, dagli Scritti giovanili, di liberare l'individuo, ogni singolo individuo, dal giogo della massa e delle sue patologie e nevrosi. La questione culturale, formativa e didattica, è quanto mai oggi un tema ineludibile, e sul quale la sinistra dovrà particolarmente insistere.
NV: Devo dire che noi abbiamo avuto da questo punto di vista un lavoro straordinario fatto dai grandi assetti del potere planetario. La residualizzazione degli apparati di formazione, affamare i centri di ricerca e di alta formazione, dequalificare la scuola di massa, naturalmente sono state opere costruite dall'alto, ma oggi gli elementi di dequalificazione vengono messe sul conto dei docenti, come se i docenti avessero dequalificato e non avessero invece subito la dequalificazione della scuola e la svalorizzazione del loro lavoro. Tutto questo perché è emerso il totalitarismo della Tv, che è stata pensata, costruita e articolata come una forma ricchissima di cannibalismo delle forme di coscienza soprattutto delle nuove generazioni. Sono diventati persino dei luoghi comuni quelli che ruotano attorno al Grande fratello e all'Isola dei famosi, però sono due paradigmi della cultura generale in cui siamo immersi. Il Grande fratello è il luogo in cui tutte le passioni si consumano nei dintorni del proprio ombelico secondo le forme di una pornografia domestica che vive in un recinto che non ha mai bisogno di sapere cosa succede nel resto del mondo, che non ha mai bisogno di stimoli culturali, in cui non c'è musica seria, non c'è libro, non c'è relazione significante col resto del mondo. Se stai nel Grande fratello non sai nemmeno che hanno eletto presidente Obama o se la cosa possa avere un riverbero. L'Isola dei famosi è la metafora nazional-popolare della competizione, l'idea ridotta a grezzo dato antropologico della competizione e la costruzione di un'aspettativa, che dietro qualunque maschera di umanità ci sia un lupo feroce che prima o poi emergerà dentro questa competizione. Insomma, sono state le due grandi scuole a cui un'intera generazione anche planetaria è stata soggiogata. Ma evidentemente c'è un dato irriducibile che ha a che fare con le forme di costruzione della socialità, che ha a che fare con la materialità che vive nell'immaginario. Se questo mondo che educa a questa idea miserabile di un individuo senza società, che ti condanna alla precarietà nella scuola, come nel lavoro, come nella metropoli, ti priva di quel capitale fondamentale che si chiama futuro, un'idea del futuro, lì allora si apre una contraddizione. E questa contraddizione che per lunghi periodi può apparire invisibile, poi in certi momenti diventa solare, esplosiva. Lì insomma nascono i movimenti studenteschi, i movimenti dei lavoratori. Lì nascono i punti di ricominciamento della sinistra. Ma la sinistra in questo caso o ricostruisce completamente il suo vocabolario o non può pensare di appiccicare sulla faccia del movimento studentesco del 2008 la maschera che più le piace. Quello a cui piace la maschera del '68, quello a cui piace la maschera del '77, quello a cui piace la maschera della Pantera o la maschera dell'85, e cioè un'operazione di immersione del movimento in un codice di identificazione. Non lo può fare, perché questo è un modo di far male al movimento e continuare a rendere la sinistra una monotona ripetizione dei propri riti culturali. La sinistra deve fare un'altra operazione, rifondarsi nel lasciarsi attraversare dalla radicalità delle domande di quei movimenti, o nel provare a offrire uno sbocco politico a quelle domande.
DN: A proposito di quanto dici sulla ricostruzione di un vocabolario, ne L'eresia di Pasolini Gianni D'Elia consiglia ai nuovi movimenti di aggiornare il proprio sistema ideologico studiando la poesia di Pier Paolo Pasolini, e cioè contraddicendo la narrazione teorica, la prosa dell'ideologia novecentesca, con la poesia del corpo individuale e vivente. Personalmente io credo che l'opera pasoliniana aggiunga al nostro bagaglio antropologico un nuovo valore, che è il “diritto alla complessità”. Da marxista a marxisant, Pasolini scaglia durissime invettive contro l'ortodossia di “lividi / moralisti che hanno fatto del socialismo un cattolicesimo / ugualmente noioso” e contro la “droga, per professori poveri, dell'ideologia”. Credi sia oggi possibile, in Italia, costruire una sinistra eretica, dialogica, pasoliniana? E' cioè possibile reclamare, politicamente, il diritto ad una Utopia complessa?
NV: Io credo che la complessità Pasolini la attraversi ma sempre rivendicando il diritto alla sintesi, e la eserciti nelle forme comprensibili in un contesto in cui la sinistra è viva. Lui parla del Palazzo con la p maiuscola, che è un luogo attraversato da un establishment complesso: la politica, l'economia... La nozione che Pasolini fa di Palazzo nel suo ultimo romanzo, Petrolio, è molto più ricca della nozione di Destra, o de La casta, che è la definizione che è stata lungamente incubata dal “Corriere della Sera” e da operazioni ideologiche pesanti della borghesia. Cioè in lui c'è l'idea della complessità ma c'è anche il bisogno che la sintesi non la faccia l'avversario, non la faccia la cultura repressiva, la cultura della destra, la cultura clericale. E' quindi necessario proporre una sintesi. Per quanto riguarda il tema dell'eresia, be', il marxismo ridotto a una scolastica o a una precettistica è francamente insopportabile. Da questo punto di vista il marxismo come corpo vivente, come processo reale non ha paura neppure degli iconoclasti. Non ha paura perché è il movimento di lotta contro la paura. Il marxismo dovrebbe essere un movimento di lotta contro la paura. Quello che a me spaventa è il marxismo dei marxisti dogmatici, è il marxismo degli imbalsamatori. Che è opprimente perché non ha curiosità per il cambiamento, ha soltanto bisogno di catalogare, vivisezionare, e codificare il cambiamento secondo i propri stilemi ideologici, e questo a me mi mette in apnea perché è l'idea che la realtà debba comunque rientrare nella tua casella ideologica, e il marxismo mi ha insegnato che bisogna far saltare le caselle ideologiche, bisogna attraversare conoscitivamente la realtà, senza provare ad addomesticarla. Altrimenti sembriamo tutti quanti come i “braghettoni”, quelli che mettevano i mutandoni sui genitali dipinti da Michelangelo nella Cappella Sistina. Così fanno molti comunisti che vanno in giro col termometro a misurare l'autentica febbre di comunismo. Vedono la realtà come una minaccia ai propri convincimenti e sono pronti subito a rieducarla, punirla, rimetterla in ordine. Fortunatamente la realtà è disordinata per sua natura e i dogmatici sono comunque destinati ad essere sconfitti.
DN: A proposito di poesia, come è avvenuto il tuo incontro con il linguaggio poetico, e come questo linguaggio si è andato ad intrecciare con i verba della militanza politica?
NV: Il linguaggio poetico appartiene alla musicalità che si respira nell'ambiente domestico. Penso che ciascuno abbia avuto suggestioni di questo tipo nell'intrecciare i registri artistici o formali su cui ha costruito poi un pezzo della propria vita. Io scrivevo filastrocche a sei o sette anni, e poi ho scritto, durante le medie, i primi componimenti. La poesia è stata anche uno dei modi di rompere il provincialismo in cui eravamo immersi. Tu considera un piccolo municipio del profondo Sud: per me che avevo vent'anni nel '78 e dieci anni nel '68 la poesia era un modo per conoscere il mondo. E' Palbo Neruda che mi ha fatto scoprire l'America Latina. E' Garcia Lorca che mi ha fatto scoprire il fascismo nella sua dimensione più violenta. Era impossibile affrontare per me, da ragazzino, la tragedia dello stalinismo se non avessi avuto anche lo stimolo della lettura di Dostoevskij. La poesia, la grande cultura letteraria, sono stati un insieme di finestre aperte sul mondo. Poi a un certo punto sono state anche una preoccupazione, perché la politica non può delegare alla poesia i propri aneliti di cambiamento, perché a quel punto il cambiamento guadagna soltanto uno spazio utopico, uno spazio letterario, lirico. Invece il cambiamento è possibile, reale e razionale, ed anche l'impossibile è reale, possibile e razionale. E quindi bisogna che la politica prima o poi si prenda il suo spazio di creatività.
DN: Ci occupiamo quest'anno del tema della “residenza”. Da una parte proponiamo di aggiornare alcune concezioni geografiche di epoca moderna e di iniziare a considerare il cosiddetto “non-luogo”, la dilatazione post-moderna della “città diffusa”, come il cuore pulsante della storia in atto. Dall'altra parte torniamo sul tema della “dorsale umanistica”, e cioè della resistenza della memoria locale nei confronti dell'omologazione megalopolitana. Tu cosa ne pensi?
NV: Noi dobbiamo analizzare bene queste categorie perché oggi il trionfo del territorio vive simmetricamente la morte delle comunità. Lo spazio dei vincoli etici comuni, lo spazio dei vincoli sociali comuni, è stato devastato ed è riempito dal mito delle piccole patrie, è riempito dagli sciovinismi di quartiere o dalle curve sud, dalle appartenenze nevrotiche, violente, pre-razionali, pre-moderne, tribali. Di un modernissimo tribalismo. E allora bisogna analizzare questi dati di realtà e sapere che l'avventura della sinistra è ricostruire il senso, gli spazi della comunità. E per me che sono comunista, come può esistere l'idea del comunismo se non c'è uno spazio di comunità? Certo, che non sia una comunità terapeutica...
DN: Vorrei tornare sul tema dei movimenti di contestazione. Paradossalmente nel momento di massima crisi del capitalismo globale, la sinistra italiana resta nel più assoluto silenzio. Chi aveva, dopo il 1992, creduto alla favola delle privatizzazioni e del mercato come principio di auto-regolamentazione del mondo, ora finge di non vedere e di non sentire. Penso all'attuale dirigenza del PD, che parla d'altro o incrocia le dita. Ma anche la sinistra radicale si limita a qualche slogan rituale, manifestando una profonda incapacità propositiva e comunicativa. E pensare che solo pochi anni fa, assieme ai ragazzi dei Social Forum, avremmo invaso lo stivale di tavole rotonde, dibattiti e work-shop.
NV: Noi abbiamo avuto un fenomeno straordinario e strano, cioè questo mondo capitalistico e la sua follia lo abbiamo raccontato benissimo nel 2001, e negli anni precedenti. Lo abbiamo raccontato a Seattle, a Davos, in tutti i luoghi in cui i Social Forum si sono dati appuntamento. E a Genova nel 2001 abbiamo raccontato la forza di una narrazione planetaria e maggioritaria, l'orrore e la deriva di questo mondo. Eravamo talmente capaci di comunicare, e talmente potenzialmente maggioritari nel mondo che hanno avuto bisogno di un piccolo bagno di sangue. Oggi che il movimento può celebrare la propria preveggenza, perché sette anni dopo tutto quello che avevamo previsto si è realizzato, è come se fossimo in una crisi di afasia. Forse perché i movimenti per avere forza devono proiettare i propri pensieri e le proprie previsioni sempre un po' più in là, e nel momento in cui si avverano le sue cattive profezie, il movimento No global non ha più ragione di esistere se non si reinventa in una nuova profezia. Forse è così. Certo è che siamo oggi di fronte ad un incredibile camuffamento della realtà. Cioè sappiamo che questa è una crisi economica mondiale, che è una crisi dei mercati finanziari, che è una crisi che sta per diventare dell'economia reale, e che è una crisi anche sociale. Ma che cosa è una crisi? E' il frutto di un movimento della crosta terrestre, è un problema meteorologico, un'avventura della cicogna? Oppure è il prodotto maturo di un insieme di scelte politiche che hanno segnato gli assetti del mondo? E gli analisti della crisi, che hanno rotto i coglioni per trent'anni su quanto saggio e bello fosse il privato, e su quanto fosse invece brutto e parassitario il pubblico, si permettono ancora di parlare? L'hanno costruita loro, giorno per giorno, questa crisi. Gli Ernesti Galli della Loggia, i Panebianchi, per dire solo del più militante dei giornali della destra di governo. Ogni giorno hanno messo un mattone ad una costruzione in cui il dato centrale era la finanziarizzazione dell'economia, era l'algoritmo che si inghiottiva il senso del lavoro, il dolore, la fatica, la vita, i morti. Tutto era residuale rispetto all'euforia delle borse e all'ebbrezza dei mercati. Questo colpevole ha nome e cognome: si chiama Destra Mondiale, più cedimenti della Sinistra Mondiale. La destra mondiale è stata talmente brava che ha tracimato dai suoi accampamenti fino agli accampamenti della sinistra, che ha cominciato ad inglobare pezzi delle superstizioni che la destra ha messo in circolazione fino a farli diventare senso comune. Ma allora, scusate, bisogna stringere la cinghia in Italia, perché c'è la crisi, e bisogna dare invece ossigeno alle banche, alle grandi compagnie che hanno segnato la storia della grande finanza? E questo ossigeno bisogna toglierlo dalla scuola, dall'università, dagli ammortizzatori sociali? Noi non siamo di fronte a ricette oggettive e neutrali, siamo di fronte al volto più ferocemente classista ed antipopolare di un governo di destra. La sinistra dovrebbe essere più capace di andare alla sostanza di questa storia e di contestare con meno soggezioni psicologiche anche i portatori sani della stessa ideologia. Non si può contestare questo mondo e corteggiare Calearo, contestare questo mondo e presentarsi o parlare con la voce di Matteo Colaninno. Non si può, perché non è credibile, e perché non esiste un capitalismo innocente che sia la sfera di azione della sinistra. Perché già di questo è morta la sinistra.
DN: Alla crisi strutturale del trentennio neo-liberista si è andato ad affiancare, radicalizzandosi negli ultimi anni, un greve irrigidimento etico. Hai già parlato della rimozione del '68. Io credo che ad essere deliberatamente rimosso sia un tassello essenziale del nostro mosaico culturale, che è il tema della liberazione dell'individuo dal “ruolo”. Penso alla scuola di Francoforte, a Guy Debord, a Pier Paolo Pasolini. A questo sogno di una nuova comunità di individui liberati, la Controriforma ha risposto con una severissima repressione che ha ripristinato, prima mediante una laica acculturazione mass-mediale, e adesso anche attraverso una nuova forma di oscurantismo clericale, le vecchie separazioni sociali e di genere: manovale-intellettuale, popolare-aulico, maschile-femminile.
NV: Questo può darsi che sia un bene. Che sia un bene perché ci costringe di nuovo a mettere in movimento i cervelli. Tutto sommato abbiamo tutti goduto parassitariamente della rivoluzione femminista. Ci siamo assisi sugli allori, se così si può dire. Per esempio il “maschile” non ha nemmeno cominciato il lavoro che doveva cominciare, di scavo archeologico e genealogico su se stesso, il genere e la sua fondazione, la sua riproduzione. Hanno parlato le donne e hanno recuperato potere e libertà. I maschi hanno sopportato, si sono adattati. Da questo punto di vista non sono spaventato. I diritti di libertà non coincidono con la società del “politicamente corretto”. Credo che abbiamo bisogno di spaventarci un po' per rimettere in campo fantasia e coraggio intellettuale sul “maschile” e sul “femminile”, sulla dimensione della libertà, sulla latitudine della libertà, sulla latitudine e sulla corporalità della libertà. Abbiamo bisogno di riprendere un bel cammino teorico. Di questo io non mi spavento, anche perché penso che appena cominciano ad esagerare, in quel momento ricominciano a perdere.
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