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Critica della separazione


1. La poesia in crisi

Negli ultimi decenni si è spesso parlato di “crisi della poesia” con un’accezione ben diversa da quella che fu la “poetica della crisi” nei decenni a seguire la breve stagione del neo-realismo italiano. Dove la “poesia della crisi” fu in grado di riflettere mimeticamente (la neo-avanguardia) o criticamente (i poeti di «Officina»; la prima linea lombarda) una crisi storico-culturale in atto, a partire dal 1977 e per tutti gli anni ‘80, la “poesia in crisi” rappresenterà l’annichilimento del poeta di fronte alla metamorfosi culturale della società italiana. Né sarà più in grado di esprimere un giudizio critico complessivo sul mondo, né sarà più messo nelle condizioni di poterlo fare. I mezzi di comunicazione di massa sono a lui preclusi: svanisce la figura del poeta-intellettuale.

Il 1977 come data storica rappresenta la crisi del movimento studentesco degli anni ’60 e ‘70 e l’ultima vampata di una contestazione giovanile che presto defluirà nella violenza organizzata (il terrorismo) o nella disperazione individuale (la tossicodipendenza, il nichilismo della moda punk). Parallelamente e nel giro di pochi anni sarà consumato, a livello di massa, il cosiddetto “riflusso nel privato”. Gli ultimi anni ‘70 rappresentano altresì l’affermarsi di una nuova forma di omologazione dei gusti e dei costumi legata all’imporsi delle prime televisioni commerciali e alla conseguente corsa all’alleggerimento dei palinsesti Rai. È l’invadenza di una forma radicale di società di massa: i modelli dell’edonismo e del disimpegno, già presenti nei decenni precedenti, vengono ora proposti con un’insistenza quasi programmatica. Ha inizio l’epoca del post-moderno italiano.

La storia della poesia italiana ha altre date. Nel 1971 escono Trasumanar e organizzar, di Pier Paolo Pasolini, e Satura, di Eugenio Montale. Al di là delle differenze e delle rispettive diffidenze sono entrambi libri di svolta e di crisi, ideologica e formale. Scrive Franco Cordelli: «L’accostamento è possibile solo in ragione delle, sebbene diverse, enormi sprezzature che l’uno e l’altro operavano sul corpo della tradizione in genere e della lingua in ispecie. Montale nel suo piccolo-grande mondo metafisico. Pasolini nel suo grande e alieno mondo fisico»[1]
. Riprende il discorso Andrea Cortellessa, in "Parola plurale" (Sossella, 2005): «A ben vedere entrambi, ciascuno con le sue armi, avevano ingaggiato una guerra senza esclusione di colpi contro lo spettro dominante del Moderno: la Forma. O meglio, l’Idea della Forma.». La seconda data essenziale la dà di nuovo Franco Cordelli: è il 1975. Eugenio Montale riceve il Premio Nobel, Pier Paolo Pasolini viene barbaramente ucciso. Per l’ultima volta, sebbene per due motivi sciaguratamente dissimili, i volti di due poeti entreranno nelle case e nelle vite degli italiani. Per l’ultima volta la poesia italiana darà il suo contributo iconografico al sistema culturale e identitario nazionale.

Tra il 1970 e il 1980 escono anche le opere prime della nuova generazione poetica italiana: i poeti nati tra gli anni ’40 e ’50. Del 1971 è per Garzanti Invettive e licenze di Dario Bellezza: un importante libro d’esordio perché preannuncia quasi in anticipo di un decennio la poetica del privato, dell’auto-reclusione casalinga o, per usare le parole del poeta stesso, del naufragio nel “mare della soggettività”. Del 1976 escono invece per Guanda Somiglianze, di Milo De Angelis, e per Mondadori Il disperso, di Maurizio Cucchi. Sono entrambe due opere molto importanti. Da una parte il venticinquenne De Angelis si abbandona ad una percezione non più critico-razionale della realtà, che se pure resta oggetto poetico dominante (l’erranza nella periferia milanese, la vita in appartamento) è filtrata da un soggetto per lo più privo di schemi interpretativi e trasfigurata rimbaldianamente in visione mistico-religiosa. Parimenti Cucchi rappresenta il medesimo contenuto, la vita del soggetto in un habitat periferico centro-settentrionale, attraverso un racconto in versi infarcito di un basso parlato colloquiale spezzato da scarti logici e sospensioni linguistiche che lo traducono infine in una sorta di collage mimetico, tra automatismo neo-dada e minimalismo lombardo. Altre tre opere prime imprescindibili sono L’ostrabismo cara di Cesare Viviani (Feltrinelli, 1973), Ora serrata retinae di Valerio Magrelli (Feltrinelli, 1980) e Non per chi va di Gianni D’Elia (Savelli, 1980).

Volendo giungere, senza adesso prolungarci sui particularia, a delle approssimative conclusioni circa le principali caratteristiche della prima generazione del Post-moderno italiano (avendo individuato nel 1971 la data-simbolo della fine del Moderno poetico nazionale), quel che ne risulta è un doppio movimento “estremo”: il primo centrifugo, nell’impossibilità interpretativa del dato reale, inteso ora come evento dispersivo (Cesare Viviani, Maurizio Cucchi), ora trasfigurato in visione mistico-religiosa (Milo De Angelis); il secondo centripeto, nel “naufragio della soggettività” di Dario Bellezza così come nella reclusione autistica, già “post-human”, di Valerio Magrelli. Anche un’opera sentimentalmente critica come il Non per chi va di D’Elia deve fare i conti, pur nel suo disperato rifiuto, con questa condizione di assoluta “perdita”.

 
2. L’esilio dei poeti

Scrive Marco Merlin ad apertura di Poeti nel limbo (Interlinea, 2005), a tutt’oggi unico libro dedicato alla generazione dei poeti nati negli anni ’60: «Si pensi […] alla dispersione editoriale, alla moltiplicazione degli autori, alla latitanza della critica, alla perdita d’autorevolezza di tutte le istituzioni […] che teoricamente dovrebbero tenere il polso della situazione e promuovere la cultura contemporanea. Il dubbio, insomma, è che non ci si trovi tanto di fronte a poeti relegati in una zona marginale, quanto piuttosto al declino irreversibile della poesia tout court».

Dobbiamo a questo punto necessariamente tornare al discorso iniziale sul passaggio da “poesia della crisi” a “poesia in crisi”. Se i poeti nati negli anni ’40 e ’50 potevano ancora godere sin dalle pubblicazioni d’esordio della disponibilità di alcuni grandi editori, di una capillare distribuzione per librerie e soprattutto di una discreta attenzione critica, la generazione successiva, quella cioè dei cosiddetti “poeti nel limbo”, è la prima a vivere e subire integralmente la drammatica condizione dell’oblio totale del poeta all’interno della società italiana. Basti pensare che nel lustro che va dal 1990 al 1995 «Il Corriere della Sera» farà uscire un solo articolo riguardante la poesia italiana contemporanea: un vero e proprio record mondiale. Il periodo che va dal 1985 al 1995 è insomma un decennio molto difficile per le patrie lettere, funestato tra l’altro da tre gravissimi lutti. Nel 1985 il poeta trentaquattrenne Beppe Salvia, importante esponente della cosiddetta “scuola romana” rispondente alla rivista «Braci», decide di togliersi la vita. Nel 1987 è il turno del poeta salentino Salvatore Toma, trentaseienne. Nello stesso anno deciderà di abbandonare la vita anche il trentaduenne marchigiano Remo Pagnanelli.

Senza scadere nel facile gossip scandalistico è importante capire come da questo clima storico-culturale (la spettacolarizzazione della società italiana, la perdita del pubblico della poesia, la fine del ruolo del poeta) derivi tutta una produzione di versi che solo negli ultimi anni inizia ad essere valutata e analizzata sistematicamente. Se dovessimo da questa desumere alcune direzioni poetiche principali, dovremmo parlare senza dubbio di 1) una tendenza lirica di impianto crepuscolare, confessionale nel contenuto e tradizionale nella forma 2) un ritorno alla sperimentazione linguistica pura slegata dai temi della realtà. In entrambi i casi, nonostante la distanza delle tradizioni letterarie e formali di riferimento, ci troviamo di fronte ad un movimento complessivo di “ritrazione”.

Soprattutto nella nuova ondata sperimentale, fatta eccezione per alcune operazioni minori come quella del Gruppo ’93, il dato ideologico e politico caratterizzante le avanguardie degli anni ’60 non è più presente. A dominare è semmai una scelta anti-realistica ed anti-mimetica del linguaggio in chiave paradossalmente intimista quando non addirittura mistico-religiosa. Per dirla ancora con le parole di Marco Merlin: «Siamo poi così tanto distanti dalla Poesia innamorata?». Si potrebbe quasi affermare che la sola differenza importante tra tendenze lirico-confessionali e neo-sperimentali degli ultimi anni ’80 e dei primi ’90 consista nella maniera formale di rappresentare la medesima reazione alla crisi in atto. Se la reazione neo-crepuscolare è quella di fuggire il mondo spettacolarizzato rifugiandosi in una sorta di solipsismo letterario, quella neo-sperimentale al contrario consiste nel tentativo di utilizzare lo spettacolo stesso al fine di mettere in scena il medesimo solipsismo. È necessario notare come queste due formule, solitamente giustapposte dalla critica letteraria, abbiano in realtà almeno due caratteristiche comuni: 1) a livello contenutistico: l’elusione dei temi della Storia; 2) a livello formale: l’abbandono della lingua orale. Entrambe provengono insomma dal “mare della soggettività” di cui parla Dario Bellezza.

 
3. L’ideologia della separazione

È nel “mare della soggettività” che la poesia italiana contemporanea è andata a separarsi dalla sfera generale della “cultura” naufragando nell’autoreferenzialità del “genere”? Sarebbe utile rileggere, a circa un secolo dalla sua stesura, un libro di straordinaria attualità come La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter. «Quella è cosa che non lo riguarda» scrive ironicamente il pensatore goriziano a proposito dell’uomo sociale, specializzato in un sapere quanto alienato dagli altri. Parimenti gli ultimi trent’anni di produzione poetica nazionale sono stati caratterizzati da un vasto e generalizzabile moto di “ritrazione” dal mondo e di “alienazione” dalle scienze umanistiche classiche così come dalle nuove discipline del sapere contemporaneo. La poesia italiana non ha avuto, né ha voluto avere, rapporti con forme “altre” di conoscenza, indagine o testimonianza.

Detto ciò: io credo che la poesia come ogni altra costruzione antropica possieda una natura “involontariamente” mimetica e riflessiva. Credo cioè che al di là delle buone intenzioni non possa esistere una poesia che non abbia tra le diverse forze in campo a costituirne il nucleo linguistico e contenutistico, la forza dell’ideologia in atto (come nella definizione di D’Elia in «Lengua», a proseguire il discorso del realismo ideologico e di pensiero di «Officina»). L’attività di tale “ideologia in atto”, che esercita la propria ingerenza sul soggetto autoriale mediante la trasmissione del “gusto estetico” (il canone), potrebbe essere parzialmente neutralizzata solo attraverso il continuo esercizio delle facoltà critiche individuali. In qualche modo io credo, tagliando con l’accetta un giudizio ben più sfumato, che tutto ciò che non sia “volontariamente filosofico”, sia “involontariamente ideologico”. Credo dunque che la poesia separata dalla conoscenza (storica, politica, filosofica), e dunque ridotta a pura tecnica (lo “stile” del canone tardo-novecentesco, i «bei versi» di cui ride Michelstaedter), sia una riduzione profondamente radicata nel territorio dell’ideologia in atto del primo Post-moderno europeo (che consiste propriamente nella “rimozione” di ogni teoria e nella “riduzione” dei saperi a tecniche specialistiche).

Oggi ci troviamo senza dubbio di fronte ad una evidente incrinatura di tale canone: il moto di “ritrazione” della poesia dal mondo si va dunque esaurendo? Scrive polemicamente Massimo Gezzi: «Io tutto questo oggi non so farlo. Non sono capace di dire compiutamente quale sia la verità del nostro presente, né di vedere nitidamente il mondo intero dall’alto. Ma se cerco di guardarlo nel modo più preciso possibile dalla specola di un io molto simile a tutti gli io che lo circondano, e che tenta di vivere quotidianamente consapevole di questa complessità e contraddittorietà delle cose, seppure a frammenti, faccio molto meno? Cioè, faccio qualcosa di veramente diverso?»[2].

Io rispondo di no; il problema è difatti più vasto di una disputa minore tra scuole e stili ed ha origine in quella che io chiamo, prendendo a prestito il termine da un’opera cinematografica di Guy Debord, “Ideologia della separazione”. L’ideologia della separazione è la struttura neo-fordiana attraverso cui si sviluppa la società post-moderna in quanto catena di attività umane, lavorative o ricreative, suddivisa in “movimenti specifici di massa” strettamente contigui all’esigenza del consumo di prodotti reali o virtuali. Qualunque “vissuto” in quanto “movimento specifico di massa” si traduce oggi in una funzione neo-fordiana. La stessa libertà assoluta dell’individuo in rivolta (il viandante, il “senza tetto”) è oggi sostituita dalla funzione del “punk a’bbestia”, con il suo bagaglio specifico di tecniche e stili, e con la sua specifica “separazione” dal contesto. Possiamo facilmente parlare di questo morbo della “specializzazione” per quanto riguarda il microcosmo, arretrato e un po’ macchiettistico, della poesia italiana contemporanea, per cui appare sempre un po’ ridicolo che un poeta si occupi di questioni «che non lo riguardano». Il canone ridacchia dell’utopia politica, dell’intuizione teologica, del pensiero filosofico. Il canone ridacchia di ogni contenuto extra-letterario o linguisticamente non adeguato, rimandando ogni questione al rispettivo campo specifico. Bisognerebbe sempre riflettere sul termine “Lager” ogni qual volta si parli del proprio “campo”.

Se allargassimo però l'orizzonte, oltrepasssando il filo spinato del nostro “Lager” letterario, scopriremmo che la “separazione dell’umanità occidentale” è il “metodo” attraverso cui ad una richiesta forte di Unità, nel fiore degli anni Sessanta, la Storia ha risposto con una severissima repressione che non solo ha ripristinato, mediante acculturazione mass-mediale, i ruoli antropologici originari (maschile-femminile, manovale-intellettuale, popolare-aulico) ma ha anche prodotto un’infinità di ulteriori divisioni interne a tali categorie (le “specificità di massa”). La separazione del genus poetico dalla sfera della “cultura” tout court, è parte integrante di questo macro-movimento storico ed ideologico: «Agli occhi porta come i cavalli da tiro i ripari perché non gli accada di guardar a destra o a sinistra. La sua previsione deve limitarsi a quella strada e a quel tratto prossimo per guardar di non incespicare. Così gli è tolto il senso di responsabilità.» (Carlo Michelstaedter)[3].

 

4. Il senso di responsabilità

Sia chiaro: non credo sia possibile costruire una “nuova poesia” né decidere di unire ex-novo la tecnica poetica alla sfera delle discipline umanistiche a meno che questo non avvenga come conseguenza naturale e involontaria di un’operazione culturale di più amplio respiro. Il senso di “responsabilità” che ci è chiesto, dopo un trentennio di edonismo intellettuale, consiste essenzialmente nella presa d’atto della propria ideologia d’origine come causa di una condizione di rinuncia e perdita di “unità” e di “integrità”. Scrive Guy Debord nella sceneggiatura di Critique de la séparation[4]: «Tutto ciò che riguarda la sfera della perdita, cioè quanto ho perduto di me stesso, il tempo passato; e la scomparsa, la fuga; e più generalmente il trascorrere delle cose, e anche nel senso sociale dominante, nel senso dunque più volgare dell’impiego del tempo, ciò che si definisce il tempo perduto, s’incontra stranamente nell’antica espressione militare “da soldati perduti” (cioè mandati in avanscoperta, allo sbaraglio), incontra la sfera della scoperta, dell’esplorazione di un terreno sconosciuto; tutte le forme della ricerca, dell’avventura, dell’avanguardia.». Possiamo dunque fermarci, percepire quel che stiamo perdendo, rifiutare il “finalismo” storicistico e rovesciare il processo in corso di separazione dei saperi? Io dico di sì, e credo anzi che sia l’unico dovere, l’unica vera responsabilità, di cui un intellettuale italiano possa oggi farsi carico. Scrive Luigi-Alberto Sanchi: «Se lo studio per discipline appare insufficiente al rinnovamento della cultura, anche per l’incapacità di troppi specialisti ad allargare lo sguardo al di là del recinto delle proprie competenze, ad esso andrà affiancato un altro approccio, per “problemi” transdisciplinari»[5]. Si potrebbe, tanto per restare nel panorama della critica letteraria, riequilibrare l’approccio neo-formalista proprio degli ultimi decenni di critica letteraria italiana con una rinnovata attenzione ai nuclei tematici e filosofici dell’opera. Insegnare agli esordienti, che per mezzo di tale critica dovrebbero farsi le ossa, che poesia è spirito incarnato nella musica e non solo “struttura”. Che ogni tecnica poetica è un’azione tentata sul corpo del mondo. Che enjamblement è superamento del dualismo, e non solo “forma”. Insomma: sarà mai possibile parlare di un libro di poesia italiana contemporanea come in altri tempi si è parlato di un libro di Blok o di Genet, e cioè capendone le azioni filosofiche a cui rimandano determinate scelte stilistiche? In nessuna autorevole rivista di cinema o di teatro troveremo mai una recensione ridotta a lista neutra di scelte tecniche di fronte alle quali il recensore si trova: o a subridere, se tali scelte non soddisfano le proprie aspettative canoniche; o, se altrimenti soddisfatte, a plaudire calorosamente. Perché mai allora il mondo della poesia dovrebbe accettare tale riduzione e tale marginalizzazione all’interno del dibattito culturale? Siamo proprio soddisfatti di questo macchiettistico auto-esilio? Ecco, io credo che sia giunta l’ora di “tornare in patria”, checchè ne dicano i vecchi savi del Canone tardo-novecentesco, a partire dalla messa in discussione di “problemi transdisciplinari” da condividere con altri ambiti delle “culture contemporanee”.

Certo, nessuna “fusione a freddo” sarà mai generatrice di buona poesia. Questo mio provvisorio intervento vuole essere un invito al cambiamento antropologico e non stilistico. «Donde il fatto che, prima che il “nuovo uomo” creato positivamente abbia dato poesia, si possa assistere al “canto del cigno” del vecchio uomo rinnovato negativamente: e spesso questo canto è di mirabile splendore; il nuovo vi si unisce al vecchio, le passioni vi si arroventano in modo incomparabile» (Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale). Credo insomma che una volta “aggiornato” il nostro “sguardo culturale”, una volta “rinnovato” il nostro spirito critico sulla storia della conoscenza del mondo, la creazione di una “nuova poesia”, non separata dalla sfera delle discipline “altre” ma non per questo ad esse asservita, sarà un’involontaria mirabile conseguenza.



[1] Prefazione a Pier Paolo Pasolini, Trasumanar e organizzar (Milano, Garzanti 2004)
[2] Tre paragrafi in difesa del Non-poema, «La Gru» n. 3, maggio 2006
[3] da La persuasione e la rettorica (Milano, Adelphi 2005)
[4] in Opere cinematografiche (Milano, Bompiani 2004)
[5] Cosa si studia nella scuoletta marchigiana, «lagru.org», 19 ottobre 2007