
Ripensare la democrazia e il potere del popolo. Conversazione con Laura Bazzicalupo
Scritto da Riccardo Fabiani Mercoledì 20 Luglio 2011 13:32
RICCARDO FABIANI
Ripensare la democrazia e il potere del popolo. Conversazione con Laura Bazzicalupo
Dalla gestione biopolitica alla democrazia partecipativa: questa la sfida che emerge dal lento trapasso dell'egemonia neo-liberista di questi anni, proprio adesso che la crisi finanziaria e dei debiti sovrani e il lungo crepuscolo del berlusconismo in Italia espongono le debolezze di un'egemonia che ha condizionato la politica e le nostre vite per più di trent'anni. Ma come si può “rilanciare la politica come progetto”, soprattutto per una sinistra stretta fra un'alternativa contestataria e lo smottamento post-socialdemocratico verso il centro della “Terza via”?
E come superare la falsa dicotomia fra il mito di una tecnocrazia liberale e la contestazione extra-politica per rilanciare una nuova rappresentatività repubblicana che arresti questa deriva populista? “La Gru” ne parla con Laura Bazzicalupo, docente di Filosofia politica presso l’Università di Salerno e presidente della Società italiana di Filosofia politica.
Nell'articolo che ha pubblicato su “Il Mulino”, dal titolo “Quando la rappresentazione politica rifiuta la politica”, lei ha tratteggiato efficacemente le caratteristiche del berlusconismo, inteso come personificazione immediata che riesce a incarnare la pluralità caotica della nostra società neo-liberale. Su “La Gru”, abbiamo definito il processo storico che ha portato al superamento della rappresentazione politica tradizionale e repubblicana come “Trentennio”, cominciato con il rapimento di Aldo Moro. Eppure, quest'analisi non manca di sottolineare la specificità del contesto italiano: mentre la personalizzazione della politica nel resto del cosidetto “Occidente” è stata portatrice di un progetto forte, di rimodellamento neo-liberale dell'economia e della politica, il laboratorio italiano ha prodotto un populismo on demand dai tratti unici e che ha inciso solo in parte sul groviglio d'interessi italiano, probabilmente per un difetto strutturale di statualità che caratterizza il Paese. L'Italia come caso esemplare dell'egemonia neo-liberale, ma allo stesso tempo vistosa eccezione?
La sua articolata domanda espone già le premesse della questione: l’Italia appare compiutamente catturata dalla grande svolta neoliberale, soprattutto dal punto di vista del quadro di verità/potere, cioè dal punto di vista dell’immaginario comune che regge le identificazioni delle persone. Molto più incerta è invece la struttura istituzionale sociale – il livello costituito dalla rete di poteri economici, di attività imprenditoriali, di corpi intermedi e di associazioni. Livello che, che negli altri paesi occidentali, sostiene la trasformazione neoliberale e la concretizza in forme - interne sempre al sistema economico e politico globalizzato - di partecipazione attiva, seppur settoriale e spesso lobbistica, alle decisioni: altrove, per esempio negli Usa, già a partire dal Lobbing act, la partecipazione pluralistica e le istanza di autogestione dei soggetti interessati, affected, su una specifica questione, sono giuridicamente regolate e relativamente trasparenti. In questo caso l’appello populistico all’unità non azzera la partecipazione privatistica aggregata pluralisticamente: si limita ad apporre su questa un livello di superiore sintesi su problematiche comuni difensive, sicuritarie e patriottiche attraverso alleanze e una azione di equilibrio. La sintesi della politica democratica rispetto al pluralismo degli interessi, delle differenti identità culturali tipiche della società contemporanea, appare dunque gestita nei paesi occidentali da una forma di reductio ad unum sì di tipo populista, ma politicamente energica, con figure come Obama negli Usa, Merkel o Sarkozy. Queste infatti rilanciano sul pulviscolo degli interessi sia il livello di azione retorica e mediatica dell’unità della patria, del popolo e della difesa dello spirito nazionale, quanto contemporaneamente appunto la capacità di sintesi politica, una buona efficacia regolativa (si pensi all’interventismo politico sulla crisi economica.) e un messaggio di protezione e soluzione dei problemi.
In Italia il quadro muta perché muta la realtà sociale ancor più che gli attori politici. Non si tratta di mettere insieme ciò che già ha un carattere aggregato e compatto, con una identità diversificata ma riconoscibile e prevalente. Il popolo è uno sciame di individui atomizzati e autoreferenziali che si percepiscono minacciati tanto dagli automatismi della globalizzazione economico-finanziaria che dall’afflusso di migranti: allora ciò che tiene insieme questa fluttuante molteplicità è la narrazione televisiva, rispetto alla quale ‘il pubblico’ è passivo e le differenze sono neutralizzate. Diventa assai più difficile aggregare con mediazioni democratiche e partecipative un popolo siffatto. E il populismo mediatico di Berlusconi ha operato aggregazione non attraverso una mediazione costruttiva delle diversità, ma tramite una unificazione virtuale, immediata, ultra-democratica, azzerando e criminalizzando peraltro qualsiasi voce critica. La governance neoliberale, (quel dispositivo biopolitico che promuove l’autogoverno ai fini di ridurre il governo eteronomo dello Stato) è ben più debole. La svolta neoliberale dunque, posta sotto il segno della deregulation e del rischio - che paradossalmente, come dice Foucault, dovrebbe generare (e altrove genera) un maggiore interventismo governamentale per garantire sicurezza - dà luogo ad un intreccio di poteri spesso scandalosamente illegali, non riconosciuti nè legittimati democraticamente, una rete di presunte competenze tecnocratiche che riducono gli spazi di discussione politica, una serie di negoziazioni tutt’altro che trasparenti e razionali dal punto di vista dell’interesse pubblico e dello stesso interesse dei cittadini coinvolti, i quali ultimi vengono mobilitati da campagne mediatiche che oscurano l’informazione e sollecitano un consenso poco consapevole. Mentre il potere statale populista non mostra la capacità di orientare il sentimento comune, né accresce, se non verbalmente, il proprio interventismo a protezione della sicurezza. Il berlusconismo di questo quadro contraddittorio è l’espressione sintomatica. La unificazione populista mediatica/immediata – immediatezza costruita mediaticamente, ma priva, con una rappresentanza del tutto svuotata, della autentica mediazione del processo democratico-partecipativo – si sovrappone sulla frammentazione infinita degli interessi (quindi più facili da orientare), nascondendo la reale eteronomia dei processi decisionali, nei quali i tavoli di partecipazione sono per lo più puramente formali. Le forze chiamate al processo decisionale di governance sono deboli e politicamente poco consapevoli, e dunque cedono alla gestione dei poteri economici più forti che dispongono di mezzi di pressione sull’opinione pubblica e di consulenze e competenze altamente qualificate. Non dunque tanto o soltanto un deficit di statualità (anche se questo si fa sentire sia nella incerta gestione ‘a distanza’ dei processi di governance che nell’abdicazione a qualsiasi tentativo di sintesi), ma una insufficiente articolazione della società in associazioni e gruppi d’interesse e/o di opinione, che almeno al livello di politica partecipativa degli interessi dia luogo ad un attivo protagonismo sociale. In corrispondenza paradossale con il piano unitario tutto immaginario e virtuale della retorica del leader ‘come noi’ e del puro rispecchiamento antipolitico e svalutativo della politica. Il momento della sintesi politica è rifiutato a vantaggio della opaca negoziazione con lobbies e gruppi di potere.
La sinistra a sua volta di fronte a questa immatura e anche perversa gestione da parte della destra, oscilla tra una difesa del modello eteronomo del welfare (cui il nuovo immaginario ha sottratto terreno e fiducia) e aperture discontinue alla nuova autorappresentazione – lo specchio dell’immaginario – faticando a trovare la via di una egemonia politico-culturale alternativa, persuasiva.
Il Trentennio italiano è quindi la storia della costruzione di un'egemonia nuova, che sostituisce il consenso costituzionale del 1946-48, all'interno del quale DC e PCI si confrontavano per vincere. Sempre su “La Gru” abbiamo cercato di delineare la genesi di questa egemonia, per capirne attori, sostenitori e fattori storici che ne hanno favorito l'ascesa. In particolare, i media (anche nel veicolare una certa “cultura pop”) e gli intellettuali organici (nel senso originario gramsciano) hanno avuto un ruolo determinante negli anni '80 e '90 italiani. Quello dei mezzi di comunicazione e degli intellettuali è un aspetto che Gramsci sottolinea ampiamente, ma che sembra essere meno rilevante per Butler, Laclau e Zizek in “Dialoghi sulla Sinistra. Contingenza, egemonia, universalità”. Non crede che, ancora prima della “catena di equivalenze” e della crisi della rappresentazione, sia proprio la formazione dell'opinione pubblica e la creazione e circolazione di certe idee (su un terreno già fertile) ad essere stata decisiva in questo processo?
Che la grande svolta neoliberale – divenuta immaginario comune e indiscusso – sia di natura culturale è evidente: cultura o regime di verità che permea profondamente e sorregge i dispositivi economici, giuridici e politici, trasformandoli ab imis: peraltro questa trasformazione, che investe l’intero occidente, è legata ad una trasformazione molto importante del capitalismo che entra nella sua fase cognitiva, terziarizzata utilizzando con grande spregiudicatezza le coordinate della protesta e dell’alternativa che era stata del ’68: Il sessantotto si ‘realizza’ in forma perversa: autogestione, dissoluzione della rappresentatività delle grandi formazione partitiche e sindacali, ripensamento della famiglia, svuotamento della scuola tradizionale: gli input libertari si concretizzano in chiave neo capitalista all’interno della ‘verità’ dell’autorealizzazione, del capitale umano, scardinando l’apparato del Welfare e la sua burocratica eteronomia ed economicizzazione delle istanze di emancipazione e di uguaglianza. Realizzandosi in questi termini, il 68 si perverte totalmente e trascina con sé la solidarietà e la sintesi politica (una filosofia che diceva alla politica quale fosse il senso dell’economia), Tornando alla caratterizzazione ‘culturale’, e all’opinione pubblica: una rivoluzione siffatta non potrebbe reggere se non in un quadro di verità, di autorappresentazione condivisa. Questa dinamica che sconfessa la vecchia lettura determinista ed economicista del marxismo, era chiarissima già a Gramsci, la cui lezione oggi appare assai viva. La struttura stessa del discorso egemonico conferisce, nell’autonomia del politico dal sociale e dall’economico, uno speciale rilievo all’immaginario comune e ai regimi di verità: credo che il testo di Butler Laclau e Zizek, da lei citato, raccolga proprio questa sfida. Nel concetto stesso di egemonia è implicita la centralità della ‘costruzione’ intellettuale e politica di una opinione pubblica. Che non si parli esplicitamente di intellettuali, dipende forse dalla speciale natura della svolta linguistica cognitiva del mercato e del capitalismo stesso. Gli intellettuali non sono più, in nessun caso, una casta a parte incaricata di fare da corifei organici oppure da critici in purezza del regime di verità dominante. Io penso che il capitalismo cognitivo – dai media alla comunicazione internet, allo spettacolo, alla crescita esponenziale della dimensione comunicativa delle aziende private e pubbliche – arruoli nella categoria tutti costoro e dunque ne amplifichi la responsabilità (di connivenza o di prospettiva alternativa). Infatti l’influenza della cultura pop e della televisione generalista è stata assolutamente primaria e nient’affatto sottovalutabile da parte dell’ intellighenzia ‘colta’ che semplicemente si rivolge ad un target diverso.
In verità però la profondità della svolta, che ha messo in forma i processi di soggettivazione della generazione degli anni ottanta, rende problematica la possibilità di una piega critica e un orientamento emancipativo, di sinistra insomma. Tutti lavorano all’interno del mercato: questa consapevolezza che per la vecchia scuola di Francoforte, bruciava l’azione degli intellettuali tra depressione ed utopia, ora tende a far slittare i discorsi in luoghi diversi da quello fatidico dello scontro frontale – consapevolmente Foucault diceva che non c’è un luogo del Gran Rifiuto – in direzione piuttosto dell’apertura di interstizi’alternativi’, liberi, eccedenti la logica economica dell’equivalenza. In questo senso sono indicative a mio avviso le dimensioni ‘ideologiche’ della partecipazione diffusa e locale, dove i saperi ‘intellettuali’ contribuiscono in modo paritario con altri saperi quotidiani, alla ‘salita in generalità’ delle istanze, rendendole autenticamente ‘pubbliche’ in modo diverso dalla versione passiva, spettacolare, cui la vecchia e gloriosa parola ‘pubblico’ è stata ridotta.
Un tema importante è quello, appunto, degli intellettuali; in particolare, credo sia importante ragionare sul ruolo degli intellettuali organici, che nella nostra società post-industriale possono essere identificati in coloro che operano nell'economia immateriale – giornalisti, consulenti, ricercatori, operatori dei mezzi di comunicazione ecc. Si tratta di categorie socio-professionali che, in quanto opinion leaders, sono portatrici di nozioni, valori e visioni culturali e politiche determinanti nel formare l'opinione pubblica, come aveva delineato purtroppo già Licio Gelli nel suo “Piano di Rinascita Democratica”. Forse, fra le intuizioni “immediate” della Destra che lei cita nel suo articolo, dobbiamo anche annoverare l'attenzione e la comprensione di questa variegata categoria e del suo impatto sulla società? E che ruolo possono svolgere gli intellettuali tradizionali, soprattutto nel contesto italiano, dove la funzione di mediazione culturale fra “popolo” e classi medie e superiori è sempre stata problematica?
La Destra è stata certo più rapida ad intuire, come è proprio della sua tradizione, il ruolo cruciale del racconto – il mito – per la politica, rispetto agli apparati tradizionalisti dei partiti di sinistra. Bisogna tenere presente che la ‘immediatezza’ prensile della destra, la cooptazione cui già ho accennato delle categorie di opinion makers, l’arruolamento di giornalisti, consulenti etc. , di quegli operatori del lavoro immateriale che lei chiama intellettuali organici, ha certamente contribuito a costruire l’immaginario dominante e a confermarlo attraverso l’uso dei sondaggi e delle simulazioni come luogo di costruzione della autorappresentazione del popolo. Si può supporre che l’assoggettamento di questa vastissima categoria socio-economica al codice del mercato, di per sé, implica lo svuotamento o la neutralizzazione dell’eccedenza emancipativa e libertaria della creatività intellettuale. Ovviamente qui parliamo di categorie che contribuiscono alla operazione politicamente centrale della costruzione dell’immaginario, delle coordinate di ‘rispecchiamento’, non degli status sociali che rimandano all’ordine simbolico e alla rappresentazione politica spesso discordanti con quello. Lo scollamento tra identificazioni immaginarie e ruoli nell’ordine sociale e economico era stato già sottolineato da Gramsci e rende necessario mobilitare, per la diagnosi analitica dell’attualità, una serie di categorie psico-politiche e di spettralizzazioni.
Il problema da un punto di vista sia teorico che pratico sta appunto nella spinta che la ‘immediatezza’ antirappresentativa e sessantottina ha dato allo slittamento della ‘rappresentazione simbolica’ verso l’immaginario e l’assorbimento di quella in questo. Si perde così lo spessore doppio della rappresentazione, la dimensione non detta, o oscurata dall’immaginario, cui una politica di emancipazione fa riferimento per mobilitare verso il cambiamento. Questa occlusione non credo che possa essere riaperta da intellettuali tradizionali – o almeno non in modo incisivo – piuttosto sembra che cominci a ‘funzionare’ la verità della crisi economica, che scardina sensibilmente, in nome del principio di realtà, la verosimiglianza dell’immaginario di trionfale autorealizzazione acefala edonistica e individualizzata del neoliberalismo. Qualcosa si è inceppato. Nella faglia, si incrina l’immagine speculare del popolo - che il premier manifesta nella propria persona, soddisfatto, autonormato, libero da debiti di solidarietà e di morale e incline all’imperativo libidico a godere – in molti pezzi che sempre più numerosi, non vi si riconoscono. In questa frattura si danno le possibilità di dar voce allo scontento, di aprire il varco alle ombre a lungo rimosse. Gli operatori del lavoro immateriale che hanno posizione di potere possono aprire lo spazio per quelle voci, senza – come Foucault o Deleuze ci insegnano – sostituirsi ad esse e parlare in loro vece. Nella consapevolezza che la capacità del mercato di riafferrare quelle alternative e metabolizzarle, è notevole, come d’altra parte è notevole la possibilità di imprimere svolte anche consistenti a quel meccanismo di mercato che l’immaginario neoliberale ha naturalizzato e sottratto alla critica facendone addirittura il criterio della democrazia e che è invece, né più né meno (e, per quanto abbiamo detto, non è affatto poco!), un regime di verità, politicamente modificabile.
In questo contesto, l'affermazione dell'egemonia neo-liberale (nelle sue varie declinazioni nazionali) è stata agevolata sicuramente anche dalla nascita di un nuovo ordine economico mondiale: penso alla liberalizzazione della finanza internazionale negli anni '70, col crollo di Bretton Woods e la nascita di quella dittatura dei mercati globali che viene tradotta quotidianamente in un limite retorico invalicabile nella politica e in una concreta frammentazione della vita di ognuno. Tuttavia, il dibattito odierno sull'egemonia, come esemplificato nel libro già citato, sembra ignorare questo tema, per paura di cadere in un essenzialismo volgarmente marxista. Per usare una terminologia marxista, è importante studiare la “struttura” per capire la “sovrastruttura”? E come vede l'interazione fra questi fattori, soprattutto al fine di una comprensione più esaustiva del problema dell'egemonia?
Naturalmente sono d’accordo sulla natura economica della egemonia liberale come sul nuovo ordine finanziario sottratto alla politica e, come ho detto, naturalizzato se non di diritto, di fatto . Intendo con questo sottolineare, come il marxismo ha insegnato, la capacità di una forma economica proteica come il capitalismo di mettere in forma e essere messo in forma da cultura, verità, scienza, morale, religione, diritto, politica: una forma di vita, semplicemente, che se si rinnova, modifica a fondo le forme di vita. Nella svolta cognitiva del capitalismo, così come descritta dal libro di Boltaski e Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, struttura e sovrastruttura coincidono e, se vogliamo, la sussunzione della vita anche mentale dei lavoratori nel capitale tende ad essere totale.
Il libro Contingenza egemonia universalità, ha in realtà come obiettivo il rilancio di quello che potremmo chiamare ‘il momento machiavelliano’ del marxismo, la politica dunque e ha, come interlocutore critico, il riduzionismo economicista dell’ortodossia marxista. Soprattutto con Butler e Laclau apre alla inclusione, postmoderna e decostruttiva, della lotte per le identità minoritarie, sia sessuali che razziali ed etniche, come contenuti nuovi delle lotte egemoniche. L’universale dell’emancipazione si concretizza di volta in volta nel particolare contingente, quale esso sia, che viene universalizzato artificialmente, politicamente, tramite l’equivalenza egemonica. Si rende operativo il concetto chiave di differenza, all’interno di una concezione radicale della democrazia come spazio di un popolo mai rappresentabile nella sua totalità e dunque sempre attraversato da una faglia di antagonismo e di lotta emancipativa: l’assunto è gramsciano nel senso che ritiene cruciale il discorso (materiale e immaginario insieme) e sa che esso non corrisponde affatto alle collocazioni di classe, poiché coinvolge – e la psiconanalisi aiuta a capire queste dinamiche – anche persone e ceti che non avrebbero affatto interesse a sostenerlo. Ma, al di là di Gramsci, l’orizzonte di verità che orienta la dinamica egemonica appare contingente e inoggettivabile, contrariamente a quanto pensavano Marx e lo stesso Gramsci per i quali vera e oggettiva era la struttura economica: l’economia stessa, invece, tende ad essere considerata non una struttura oggettiva, ma un codice di traduzione delle relazioni di potere e di riconoscimento che assorbe ed oscura, oggi, il livello della logica politica, livello che in quel libro si vuole difendere. Comunque il libro risale a prima della bolla speculativa economico-finanziaria tutt’ora in corso. In relazione a questa ‘verità’ schiettamente economica e dalle conseguenze tragiche per le persone, è Zizek il più sensibile, è Zizek che (e già in quel libro ci sono le avvisaglie) si batterà cioè per smascherare nel decostruzionismo differenzialista dei suoi amici, il fantasma che lo sorregge: quello che lui chiama il Reale del capitalismo, accettato come orizzonte forcluso, non discusso. Zizek ritiene necessario ri-appellarsi alla ‘verità’ dello sfruttamento come punto fermo che caratterizza la lotta egemonica che altrimenti rischia di essere sempre fagocitata dal capitalismo e addirittura di favorirne la stabilità nella misura in cui sposta le lotte su obiettivi particolaristici facilmente metabolizzabili.
Proprio parlando di economia, Zizek sostiene che esistano due egemonie: una di fondo, che è quella “indicibile” del capitalismo, che non può essere rimessa in discussione; ed una interna al capitalismo, fra visioni differenti di come questo debba declinarsi. Il contesto dell'attuale egemonia neo-liberale è senza dubbio quest'ultimo: l'abbandono del paradigma socialdemocratico e keynesiano per un liberismo monetarista, accompagnato da un riflesso securitario. Ma quali sarebbero le caratteristiche di un'alternativa egemonica di sinistra che operi all'interno del contesto democratico? Esiste uno spazio a sinistra (nella cosiddetta sinistra post-moderna) che non sia un semplice appiattimento sulle posizioni da “Terza Via” o un semplice ritorno alla socialdemocrazia tradizionale? Ed esiste ancora uno spazio di contestazione (e pertanto potenzialmente egemonico ed alternativo) nei confronti dello “sfondo” capitalista?
E’ appunto quanto dicevo. La naturalizzazione del capitalismo è stata certo il portato più importante della svolta neoliberista. Sottratto alla discussione e alla stessa discutibilità, il capitalismo è stato lasciato, anche dalla sinistra della Terza Via, alla sua ‘naturale’ dinamica e dunque sottratto ad ogni modificabilità politica: le richieste stesse di più etica e più regole, oggi, a latte versato, - sono argomenti a sostegno della dinamica capitalista. La scelta sembra ridotta all’alternativa socialdemocratica (la direzione politica in senso solidale dello sviluppo capitalistico) e il neoliberismo acefalo lasciato a se stesso. Perciò il provocatorio appello leninista di Zizek alla lotta di classe, e alla ‘difesa delle cause perse’ (come recita il titolo di un suo recente volume), anche a rischio della perdita delle mediazioni democratico-rappresentative. A mio avviso è necessario raccogliere la provocazione della messa in discussione del sistema, anche se le scorciatoie leniniste e antidemocratiche mi sembrano oltre che pericolose, profondamente irrealiste, anche in tempo di scontento e di crisi. Come velleitarie mi appaiono le proposte di una sinistra che assume in proprio l’imperativo attuale dell’assoluta immediatezza, della moltitudine ‘in sé’ rivoluzionaria. Proporre qualcosa in positivo è difficile.Il problema di uno spazio di contestazione al sistema economico, in mancanza del quale la sinistra è condannata alla Terza Via, va, a mo avviso, ripensato, considerando la natura mobile, socialmente e politicamente modificabile – anche in modo molto significativo – di quel Proteo che è il capitalismo, lo scambio delle equivalenze. Una cosa è certa: la svolta neo liberale ha lavorato proprio dall’interno, sulla autorappresentazione del capitalismo, erodendo la sua divisione sociale in padroni e sfruttati, capitale e lavoro,che sembrava evidente, rispetto alla quale ha lanciato lo slogan (ma qualcosa di più di uno slogan) del siamo tutti capitalisti, poiché disponiamo del capitale produttivo della nostra vita. Una rivoluzione culturale dunque che ha avuto effetti pratici giganteschi, certamente deprecabili in termini di mistificazione rispetto alla pseudo-libertà dei precari e dei lavoratori dipendenti di tutto il mondo, ma tale da farci toccare con mano (come storicamente ha fatto il capitalismo, e Marx lo sapeva) le ambivalenze che al suo interno, possono modificarlo. Non parlo di semplice riformismo, ma di quella infinità di esperienze e sperimentazioni che erodono la classificazione tradizionale e dicotomica della società capitalista dando spazio a forme di non dominio e di non espropriazione nella produzione. Non dunque l’impatto frontale della rivoluzione contro l’intero, ma la sua trasformazione sostanziale e culturale, autorappresentativa e dunque ideologica, operata in una miriade di postazioni locali e situate, orientate da una nuova egemonia culturale: meno governo - più autogoverno, meno dominio - più partecipazione e libertà: per ciascuno e per tutti.
A mio avviso, si può lavorare dal di dentro, radicalizzando le istanze di autogoverno che sono ormai una coordinata essenziale dell’autopercezione delle persone. Radicalizzarle non verso la loro destinazione eteronoma nel mercato che rovescia quello stesso immaginario di autorealizzazione libertaria in una eteronomia umiliante e sempre più pervasiva. Ma nel senso della partecipazione politica disseminata, territoriale e anche globale alle decisioni che ci concernono. Localistica e territoriale, come la spinta dal basso bottom up, a partecipare alle deliberazioni sul proprio territorio ed ambiente, globale nella misura in cui alcuni beni comuni si manifestano come intuitivamente inappropriabili, non sottoponibili al regime di appropriazione privata senza rischi giganteschi per tutti e per ciascuno: parlo della recente battaglia per l’acqua ma anche del general intellect (informazione comunicazione culture) che si produce e circola nella rete, come dell’ambiente. Temi comuni sui quali è presumibile la percezione di essere tutti e ciascuno ‘interessati’, affected. Questa partecipazione sociale dovrebbe non escludere, a mio avviso, il momento politico, la mediazione della parola egemonica che sappia proporre la sintesi, nel senso di saper trasformare il particolare sociale in universale concreto, in “particolare denso di significato politico, ideologico generale”: quella “salita in generalità” (l’espressione è di Boltanski), che fa la differenza tra processi localistici chiusi nella propria marginalità ed esperienze capaci di significato politico e capaci nel compiersi di formare soggettività politiche e identificazioni politiche nuove. Nella prospettiva che è il processo stesso di partecipazione attiva e plurale a essere politicamente significativo e non tanto o soltanto l’obiettivo di governo e di gestione adeguata della situazione particolare in questione. Si tratta in verità di due logiche diverse, l’una economica, governamentale e direi biopolitica piega la partecipazione all’obiettivo e al suo successo assorbendo preventivamente tramite tavoli di concertazione, consultazioni, campagne stampa, l’eventuale dissenso delle persone interessate dalla policy in questione, l’altra è una logica schiettamente politica che trova il suo premio nell’esercizio della uguale libertà di decisione su se stessi, aumentando il tasso di democraticità dall’insieme. Questa parola egemonica da proporre al ‘popolo democratico’ – beninteso, e lo ripeto, bottom up e non top down - nellesue pratiche diffuse, non può che essere per la sinistra la inadempiuta e forse inadempibile, ega-liberté: la combinazione di uguaglianza e libertà che esprime un autogoverno di tutti, non eteronomo.
E’ giusto osservare che la proposta oggi deve essere chiara, decisiva. Soprattutto la centralità del binomio inscindibile di eguaglianza e libertà, che rifiuta la dicotomia che ha spezzato rigidamente il campo politico così a lungo tra universalismo dell’uguaglianza (un freno indebito alla creatività dei singoli) e individualismo della libertà (la competizione, sempre assoggettata al codice del mercato, dei soggetti ‘naturalmente’ liberi). La nominazione egemonica della egaliberté offre effettivamente quella risorsa etica capace di diventare bandiera identitaria, quel mito necessario alla politica, la cui mancanza crea oggi disagio nelle democrazie occidentali, dando spazio alle agenzie religiose o alla artificiale costruzione di fondamentalismi etnici identitari. E questa operazione richiede la mobilitazione di un grande progetto culturale, avanzato da una politica orgogliosa di sé, del proprio compito in-formativo del sociale, che sappia penetrare nella cultura popolare e nei suoi umori, e riaprire gli spazi pubblici - oggi saturati dal mercato, desertificati dalla prevalenza delle merci - alle voci plurime e alle idee. Se partiamo dal fatto che l’immaginario prevalente da ampio spazio alla libertà come autorealizzazione, come intrapresa e dunque anche come autogoverno, bisogna individuare i modi, gli spazi pubblici per manifestare liberamente, ugualmente (nel senso di tutti e ciascuno) la propria singolarità e identità: un essere dentro lavorando per un fuori. E bisogna individuare il momento contenutistico, più strettamente economico, dell’uguaglianza almeno rispetto ai beni comuni, fondamentali, intuitivamente sentiti come inappropriabili: l’acqua, come si è visto, il cibo, la salute, la formazione, l’accesso alle tecnologie comunicative come luogo sia di formazione che di espressione.
Consapevoli che la cosa è complicata. La egaliberté è infatti un modo alternativo di essere e di decidere: in questo senso non si cala solo ed esclusivamente nelle dinamiche della produzione economica, chiedendo salari migliori o contesti di lavoro più sicuri. Piuttosto si riferisce alla partecipazione alle decisioni che li concernono. E’ dunque un livello politico e culturale che può incidere, e tanto, sul contesto economico. E’ complicato. E’ complicato immaginare un ruolo organizzativo degli spazi di discussione, che non comporti come sempre ricette predeterminate ma accompagni il processo deliberativo curandone la istanza di uguale libertà di tutte le parti. Difficile proprio perché i diffusi esempi di democrazia partecipativa anche quando sono sotto il segno della trasparenza (e così non è nel nostro paese) evidenziano pesanti disquilibri tra gli attori, mossi da obiettivi legittimi ma assolutamente privatistici. Difficile perché lunghi anni di biopolitica e di mercato ci hanno abituato ad una politica delle cose, non ad una politica del come. Che di questo si tratta: la democrazia fa la differenza sul come che in quanto tale, può cambiare il cosa. La sinistra che è stata nelle socialdemocrazie, tanto legata a progetti di assistenza e di gestione biopolitica che, definendo bisogni, erogavano cose infantilizzando in modo passivo i cittadini, deve imparare che eguale libertà significa ascolto e parola a tutti. Dal basso.
Non resta che ripensare la democrazia e il potere del popolo. Pensare, proporre e praticare nuove forme di gestione delle cose comuni, dei beni non appropriabili. Creare nuovi meccanismi che riattivino la partecipazione attiva dei cittadini, sulla scia delle esperienze di democrazia partecipativa ‘politica’ e non lobbistica, dal bilancio partecipativo alla discussione pubblica sulla allocazione delle risorse, ma anche alle sperimentazioni embrionali di democrazia deliberativa, alle giurie di cittadini, alle assemblee di quartiere, più in generale tutte quelle pratiche che nascono dall’esigenza di incrementare gli incontri, valorizzando la pluralità e la eterogeneità delle esperienze.
Naturalmente possiamo sentire riecheggiare la risata sardonica di Zizek: tutto questo fa solo il solletico al gigante capitalista e lo aiuta a durare. Infatti si cammina sul filo di rasoio della possibile versione governamentale e diseguale della partecipazione stessa, finalizzata alla sola efficacia economica e al controllo del dissenso. E’ su questo sottile crinale che si dà il ruolo nient’affatto secondario - in una democratizzazione sociale - della politica, il rilancio della sua creatività egemonica, nonché della sua capacità di tradurre il particolare (senza lasciarlo alla sua particolarità, che è quanto fa una destra moderna liberale) nella generalità dell’interesse comune; la capacità di sottolinearne la dimensione politica di formazione dei soggetti politici attivi e autogovernanti.
Biobibliografia:
Laura Bazzicalupo
Le sue recenti monografie sono Eroi della libertà, Il Mulino, Bologna 2011; Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010, Superbia. La passione dell’essere, Il Mulino, Bologna 2008, Il governo delle vite. Biopolitica e economia, Laterza, Roma-Bari 2006, Politica identità potere, Giappichelli, Torino 2004.
Collabora con numerose riviste, fra cui: Diacritics; Filosofia politica; Filosofia e questioni pubbliche e Storia contemporanea, con studi sulla biopolitica e sul soggetto politico.
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