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Perché non ho letto Sanguineti

immagineMARCO DI SALVATORE
Perché non ho letto Sanguineti


Semplicemente, poniamo che in Letteratura esistano due razze di scrittori. Esiste la razza di chi rimane a terra, “a distanza di sicurezza”, e quella  di chi invece si tuffa, come Esterina. Falsetto di Montale e Invernale di Gozzano [1]? In fondo no non si somigliano per niente, o meglio, soltanto riconoscendo la Differenza possiamo farle scontrare: perché la poesia di Gozzano è più graziosamente, più sinceramente “nel magma”. E questo, va detto. 

Troppo facile dire a parole che eh eh bisogna liberarsi dell’io, come fosse già fatto. E facile, di quel semplicismo sofisticato, imprecare “il poetese” e “il lirico” e “il liricizzante” e “la letteratura costituita” ecc, in quanto che so risultati connaturati alla cultura romantico-borghese, per poi contro ciò infornare ricette surgelate, per rompere, per contestare [2]. Contestare senza contestarsi (e contestarsi continuamente)? Credere così disilluder dalle magnifiche sorti capitalistiche e invece, più che altro, compiacersi. Porsi a monte della cultura borghese come si fosse avulsi dalla propria storia. Questo pretendersi invisibili ai propri strali. No non si è a monte soltanto “avendo ragione”. Si è a monte superandosi. 

Certa buona musica, amata dagli amanti della musica e della poesia, è tanto volgare proprio perché rimuove la storia e le storie, cioè non amplifica l’esperienza per esempio della contemplazione delle onde del mare, come crede, ma la rimozione stessa. Io purtroppo ho pensato spesso ai Ludovico Einaudi, a questa “musica virtuale” o virtualità “musicale” – un’immondizia che molti poeti borghesi credono monda – e tra conati rovistato in tutta questa democratizzazione illusoria dell’estetica e arroganza del gusto e opinabilità che ha irreparabilmente omesso disintegrato e isolato... diciamo “l’arte”. Ma va detto che ugualmente, “gli intelligenti” che inorridiscono davanti alla stupidità e all’ovvio e al pacchiano pretendendo ripulire il pensiero – tra l’altro con grave e ingenua ansia di purezza – e una “buona Letteratura” senza macchie che reagisca alle volgarità del mondo offrendo un rifugio dalla puzza d’umano, ebbene anch’essi benestanno nella condizione di non voler e non poter fare i conti. 

Gli dei vogliano liberarla la letteratura dal poetese? Certo! Ma anche e anzitutto dall’idea della scrittura come giuoco intelligente per abatini impotenti. Per il poetino serioso deve porsi il problema della propria falsa coscienza esattamente come per i poetino mieloso. In entrambi una mania malata a credersi d’essere. Sì siamo stufi dell’infesta volontà a esser poeti ma allo stesso modo la smetta, chi è impotente a divertire, di pretendere per tutti il PROPRIO dietrofront. L’incapace che non si sa vergognare diventa serioso, la Reazione sta nel monologo di Stato, l’avanguardia culturale è una retroguardia. I primi sono gli ultimi.

L’operazione dei Novissimi cinquant’anni fa fu quella e basta, ovvia e quadrata: la linea oltre la quale la picciola borghesia italiana – ma non l’uomo! – non aveva il coraggio di inoltrarsi. La linea d’ombra? La linea dell’io. 

La poesia non è “intelligente”, la poesia è impossibile. La vita è assurda no?  Invece, come l’arte artistica [3], la schifiltosità è ottusa. Siamo ugualmente nella rimozione dell’umano, l’indifferenza di chi non intransigente sorride a tutto e l’intolleranza dello schifiltoso: non sopportano nulla pur di sopportare sé stessi, pur di non fare i conti. 

Questa ossessione di cosa è attuale e cosa no! Ma oltrepassare il tempo? Lavorare per superare la propria morte, cioè l’io, entusiasmarsi marcire errare, rialzarsi, apprendere e apprendere dall’insegnare, parlare per capire, semmai disilludere se stessi, scandalizzare se stessi, schernire se stessi, provocare se stessi? Altro che la ricerca follemente quadrata, radicalmente ordinaria, estremamente normale. La misantropia frustrata. Si impone nell’Italia post-berlusconiana un rinascimento della posa: una specie di risurrezione dell’anima bella, oppure una tendenza a sghignazzare per alludere al proprio sommo distacco, cinismo compiaciuto segno di una sofferenza non risolta né viva bensì rimossa. Ma alla poesia si chiede coraggio. E tanta tanta stupidità. Dopo qualcosa come tredici infarti Carmelo Bene ci insegnava che l’intelligenza è miseria. La vita non è “intelligente”.

In Italia, in una nazione in cui il Cinema è stato praticamente interrotto, trionfa l’idiozia. Ma cioè: la reazione dell’intelligenza italiana, arcigna salutista e cattolica, intollerante e schifiltosa. Il consumatore di reality viene dal mio paese, quello che non posso capire invece è il nichilismo estetista e cinico dei dotti e il buonismo sdolcinato di chi spalanca un sorriso preoccupante al normalissimo arcobaleno. 

Scrivere di sangue è fare della retorica, scrivere di cielo è fare della retorica, scrivere di me è fare della retorica, scrivere del sole, d’amore, degli amici, degli dei, di dio, della luce, della pace, del mare, delle lacrime è fare della ovvia anacronistica e ridicola retorica: per chi vive una vita retorica. 

Ascoltando Roky Erickson (The Evil One) ho veramente compreso cosa significhi non avere per nulla la puzza sotto il naso, e come sia questo l’importante, qualcosa di simile, di vicino... all’amore. (E no non mi piace che su Che tempo che fa si dia Beethoven). Quanto ai poeti a ciascuno le proprie ricette vincenti stravaganti originali, uno stratagemma insomma che ometta la propria puzza sotto il proprio naso: percezione del testo frammentata assenza della trama vocazione orale vocazione ritmica emancipazione dell’io quotidianità-sobrietà irrazionalismo richiamo del mito panismo esotismo satanismo bucolismo arcadismo civilismo anticivilismo ecc ecc ecc a misura d’omuncolo borghese c’è per chiunque il Parametro su cui fissarsi e da cui reagire. Ma La Poesia è totale. Intransigente, e onnivora. La gioca la retorica, la gioca la vanità.

Ma avere fatto in luogo di non avere fatto/ questa non è vanità 

Ma voi non vedete gli esiti, vi compiacete degli intenti.

Poi mi viene in mente Roversi. Niente etichette/estetichette, ti prego. Solo la vita, la semplice necessaria indivisibilità

...

Lo scorso novembre ho stilato per La Gru un intervento per esprimere il mio istintivo e profondo odio contro il dottume italiano percorrendo mio malgrado il vasto irrespirabile luogo comune circa la figura del Poeta Pier Paolo Pasolini a trentacinque anni dalla sua morte. Ma naturalmente con l’odio non si fa nulla, e infatti non sono riuscito a scrivere. Scoraggiato squadravo sul guado opposto il laidume dell’ambiente intellettuale italiano, il laidume anzi “borghese” (in senso limpidamente pasoliniano): buonisti oppure insolenti, entrambi nello stesso cupo versaccio dell’omissione di se stessi, che i primi scampano sorridendo a ogni orrore (basta pretenderlo ben educato) e i secondi non comprendendo e non perdonando nulla e schernendo. Ovviamente all’occasione si mischiavano con sorprendente naturalezza, folla sinistra, pallida, senza futuro, ma mai avendo un tono, un gesto, una parola che somigliasse ai volti simpatici  e carismatici delle persone in gamba, o di chi ha meravigliosamente torto. 

Questo invece era uno speculare diaccio, uno sguardo... sul qualunque mondo della letteratura più che altro di poesia, ponendo che la poesia vera, più che mai strabordante oggi, ha però da subirsi dio sa quanti equivoci tra i vari siti e le riviste, e in primo luogo all’interno del mondo mondano dei letterati mediocri che si credono fare scuola. Certo che chi scrive non ha alcun titolo per dare lezioni, né offrire soluzioni: anche questi spunti, queste amputazioni, provenivano dall’odio. Ho cercato solo di controllarmi. 





[1] Dal professor poeta e critico genovese così è scritto: «Questa donna (la mulier fortis secondo Pancrazi) che in Gozzano non ha nome, troverà finalmente, e non passeranno neppure troppi anni, in Montale, un nome: è l'Esterina appunto, di Falsetto; quell'Esterina (mulier fortis anch'essa, infatti, e per uguali titoli) colta, come l'anonima figura dei Colloqui, in una situazione sportiva, di sportivo coraggio, donna che non paventa e che si butta in acqua». E. Sanguineti, Da Gozzano a Montale (1954), in Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1990, pp. 33-34.  
[2] Il riferimento è ovviamente ai Novissimi di cinquant’anni fa e, nello specifico, alla volontà di reagire alle varie cristalizzazioni neo-crepuscolari neo-realiste neo-ermetiche ecc riducendo radicalmente, com’è noto, la tradizionale “funzione espressione” e la centralità del soggetto lirico.
[3] Per “arte artistica” intendo l’imbellettare dell’arte, che è un coprire le vergogne (anche la vergogna del tempo che passa) più o meno sofisticato. 

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